«Pinky doveva essere uccisa
perchè viveva all’occidentale»

di Mario Pari
Ajaib Singh fermato dai carabinieri dopo aver dato fuoco alla moglie
Ajaib Singh fermato dai carabinieri dopo aver dato fuoco alla moglie
Ajaib Singh fermato dai carabinieri dopo aver dato fuoco alla moglie
Ajaib Singh fermato dai carabinieri dopo aver dato fuoco alla moglie

Una persona che «si è trovata a vivere in prima persona la contraddizione fra due culture: quella italiana (ormai cosciente, almeno sul piano teorico, del disvalore e della intollerabilità della violenza alle donne) e quella del suo paese e comunque del suo gruppo familiare (che le avrebbe imposto di accettare e tacere le violenze del marito tutelando l'onore della famiglia)».

TUTTO CIÒ per Parvinder Kaur Aoulakh, conosciuta come Pinky appartiene al passato. A un passato che ha pagato e sta pagando duramente, ma che sarebbe potuto costargli ancora più caro.

Un passato che torna però nel presente rappresentato dalle motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha condannato, nel gennaio scorso, a 14 anni, con rito abbreviato, l'ex marito Ajaib Singh, per averle dato fuoco.

Nelle 25 pagine scritte dal presidente-estensore Maria Chiara Minazzato si spiega perché quello fu un tentativo di uccidere e non di provocare lesioni gravissime o addirittura di salvarla. Ma in queste ore, a ridosso dell'otto marzo, assume un significato profondo anche la ricostruzione che nelle motivazioni viene data degli anni e dei mesi che hanno preceduto la sera del 20 novembre 2015, quando a Pinky venne dato fuoco dopo un litigio nell'abitazione di Dello.

LA PRESIDENTE Minazzato scrive, parlando di Pinky che: «Con estrema riluttanza - e solo assecondando le tradizioni e le pressioni familiari - la stessa ha raccontato di aver accettato il fidanzamento prima e il matrimonio poi con un giovane (Singh Ajaib), legato alla lontana da vincoli di parentela con una zia, che era nato e cresciuto nel suo paese in India e che la stessa conosceva da tempo; il fidanzamento era durato alcuni anni in cui i due si erano sentiti per telefono (con frequenza di circa una volta a settimana) e si erano visti quando la ragazza tornava in India durante le ferie». Nella ricostruzione operata dal magistrato sulla base delle dichiarazioni fornite da Pinky il primo periodo di convivenza era «soddisfacente». Ma paradossalmente tutto peggiora alla nascita della prima figlia.

QUANDO IL MARITO «condizionato dal giudizio di sua madre (che rimproverava alla nuora di non aver generato un primogenito maschio, umiliandola e insultandola per questo )», aveva iniziato a «bere e usare violenza alla moglie». Al punto che, nel mese di luglio 2015, dopo essere stata presa a sberle Pinky decise di chiamare i carabinieri. Ma il giorno successivo «quando avrebbe dovuto presentarsi in caserma per formalizzare la denuncia contro il marito, su forte pressione dei propri familiari, aveva desistito ed anzi, dopo qualche tempo, cedendo sempre alle ragioni di "onore" della famiglia, aveva fatto rientro a casa chiedendo scusa alla suocera e mostrandosi umile e sottomessa». In quell'occasione, è riportato nelle motivazioni: «Lo zio si era tolto il turbante (simbolo dell'onore familiare) e l'aveva posto ai suoi piedi chiedendo implicitamente alla nipote di farsi carico di tale onore e di comportarsi in conformità a quanto le veniva chiesto (tornare a vivere con il Singh Ajaib)».

MA IL RIENTRO NON era stato privo di timori e Pinky «anche in ragione delle minacce di morte che le erano state fatte dal marito (anche la minaccia di bruciarla), si era confidata con una vicina di casa (temendo per la sua vita ) chiedendole di attivarsi nel caso in cui avesse sentito qualcosa (“ho paura a stare qui, ho paura che lui possa uccidermi perché mi ha già minacciato; se succede qualcosa, per favore venite ad aiutarmi")».

MOLTO PIÙ di «qualcosa», quella sera di novembre accadde, e furono proprio i vicini ad intervenire per salvare la vita a Pinky, il cui corpo era già avvolto dalle fiamme, al punto da riportare ustioni che renderanno necessario il ricovero in ospedale a Genova. Poi, l’iter giudiziario, con versioni inizialmente contrastanti, fornite «per i figli». Infine, la sentenza di primo grado con la condanna del marito a 14 anni di carcere.

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