GIORNATA DELLA MEMORIA

Famiglia Trebeschi
Il ricordo passa
di padre in figlio

di Eugenio Barboglio
La resistenza cattolica bresciana intrecciata alla storia di famiglia
La scheda di registrazione a  Mauthausen
La scheda di registrazione a Mauthausen
La scheda di registrazione a  Mauthausen
La scheda di registrazione a Mauthausen

C’è una memoria che attraversa le società e le nazioni e un’altra, più intima, che percorre le famiglie. Talvolta è la stessa memoria, quando la storia delle famiglie coincide con la storia che, come si dice, ha la S maiuscola. Nella famiglia Trebeschi questa coincidenza di storie comincia dalle date. Oggi è la Giornata della Memoria, solo qualche giorno fa, il 24 gennaio, era l’anniversario della morte nel campo di Gusen di «nonno Andrea». In casa Trebeschi da un anno si sente dire soprattutto «nonno» Andrea; da quando è morto Cesare, ex sindaco di Brescia, a dire papà è rimasto solo lo zio Giovanni, per il resto sono nipoti e bisnipoti. Tanti, però. Così, per questa vicinanza di date, è come se i Trebeschi con la Messa di ogni 24 ricordassero il nonno ribelle e in anticipo tutti i ribelli. In una dimensione universale dentro cui c’è posto anche per gli aguzzini. «Se c’è una cosa a cui nostro padre Cesare ha sempre tenuto è che con la memoria non si trasmettesse il rancore». Nella famiglia Trebeschi non c’è celebrazione che escluda i carnefici, citati, con ebrei, zingari, malati psichici, omosessuali, nelle cartoline stampate ogni anno in occasione della Messa «per Andrea». Non è questione di perdono, che parlando con due dei figli di Cesare, Andrea e Antonio, sembra quasi scontato. È un’attitudine, che comincia da nonna Vittoria: incurante delle critiche della comunità, da pochi giorni vedova di Andrea, «portò una pentola di minestra ai soldati tedeschi prigionieri nella scuola di Cellatica». CHE IL MARITO era morto glie lo aveva detto Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, l’aveva convocata e glielo aveva comunicato con la freddezza di un dispaccio: «morto per debolezza cardiaca». Gli stenti, le percosse, i 186 gradini delle scala della morte... con una pallottola non è diverso, è solo più rapido. Gusen, sottocampo di Mauthausen, era stato alla fine fatale. Se fosse rimasto a Dachau forse si sarebbe salvato anche lui, come il compagno di prigionia padre Manziana, animatore della Pace e dopo la guerra vescovo «e che fin tanto che è stato in vita veniva ogni 24 a dir messa». Andrea Trebeschi a Mauthausen lo avevano trasferito dicendo a lui e agli altri che li riportavano a casa, poi arrivato in Austria il convoglio deviò. Del campo oggi non è rimasto quasi nulla, sopra hanno costruito un paese di casette colorate. C’è solo un cippo accanto a dove era il crematorio, fatto costruire dai deportati italiani che comprarono il terreno. «Le prime volte che con papà ci andavamo, se chiedevi indicazioni alla gente del posto ti rispondevano che non sapevano. Per papà era un cruccio, è stato molto contento quando ha saputo che la municipalità di Gusen finalmente aveva deciso di ricomprare quel terreno e di riconoscere il passato». A Gusen, a Mauthausen i Trebeschi ci vanno ogni volta che per un nuovo membro della famiglia arriva il giorno della Prima comunione. Un viaggio nella memoria ma anche un viaggio di iniziazione alla tolleranza, alla verità e giustizia che nonno Andrea ha difeso fin dentro quelle baracche. E prima ancora contribuendo alla nascita del movimento di resistenza cattolico al fascismo: dalla fondazione del giornale La Fionda con l’amico Giovan Battista Montini, poi Paolo VI, alle riunioni clandestine nella canonica di San Faustino. ANDREA TREBESCHI, nato nel 1897, avvocato, consigliere comunale a Cellatica, presidente della Gioventù cattolica bresciana, venne arrestato l’Epifania del ’44, negli stessi giorni di Astolfo Lunardi e Giacomo Margheriti, fucilati il mese successivo, di padre Manziana e don Vender, di don Remo Tonoli, Mario Bendiscioli, Pietro Molinari. Rinchiuso a Canton Mombello, fu trasferito al Forte San Mattia di Verona, dove la moglie e il figlio lo videro per l’ultima volta «livido del colore del vino» per le conseguenze degli interrogatori, scrisse don Vender. «Nostro papà - dicono Andrea e Antonio - parlava poco della deportazione e morte del nonno. Davanti ad una lapide con dei nomi al Vantiniano una volta disse che lì c’era anche chi aveva denunciato suo padre ai tedeschi. Ma non disse mai niente di più». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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