Il racconto dell’ebrea in fuga
e del fascista di buon cuore
Bassa Bresciana

Fotografia di www.ilariapoli.com
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Edith B. era una bella, brava e ricca bambina austriaca e viveva in uno dei quartieri più esclusivi di Vienna. Il padre, infatti, era proprietario di una grande sartoria nel pieno centro della città e, grazie al lavoro di una ventina di dipendenti, riusciva a soddisfare i desideri della clientela più esigente e a riservare un alto tenore di vita alla sua famiglia. Edith e la sorella, così, imparavano come comportarsi nella società borghese, apprendevano l’inglese e il francese grazie a due istitutrici e acquisivano le buone maniere e la dolcezza d’animo dalla madre. Si può dire che il suo futuro fosse già defi nito in tonalità pastello e che Edith dovesse semplicemente impossessarsene. Quando, però, intorno alla metà degli anni Trenta la questione dell’annessione dell’Austria alla Germania, aperta da decenni, cominciò ad avviarsi rapidamente verso la soluzione militare che, nel 1938, si sarebbe concretizzata nella “Anschluss” nazista, Edith B e i suoi non furono più soltanto una ricca famiglia molto ben inserita nella fascia sociale medio alta della città. Di colpo divennero soprattutto un branco di ebrei indesiderabili per i quali l’aria diventava sempre più irrespirabile e la permanenza in una città fi lonazista sempre più pericolosa. Consapevoli del rischio che avrebbero corso rimanendoci decisero di lasciare l’Austria e di trasferirsi con l’azienda a Fiume dove in precedenza, per gli stessi motivi , già erano approdati alcuni parenti. Per qualche tempo la famiglia B. prosperò a Fiume esattamente come aveva fatto in precedenza a Vienna, ma all’alba di una triste mattina del 1941 i fascisti circondarono la loro abitazione e prelevarono il padre che venne internato in un campo di prigionia in provincia di Cosenza. Dopo solo cinque giorni a Edith, sua madre e sua sorella venne recapitato un foglio di via con destinazione obbligata per Viterbo. Consapevole di dover comunque abbandonare tutto ciò che possedevano in balìa di chiunque, la madre di Edith, non senza prima averne spiegato le ragioni, regalò a tutti i dipendenti della sartoria la macchina sulla quale avevano lavorato. Allo stesso modo, divise equamente fra loro anche tutto il magazzino dei tessuti e delle stoff e. Alla mattina, quando si recarono alla stazione per salire sul primo treno, le donne trovarono i loro operai che fecero loro dono di tutti i pochi soldi che erano riusciti a racimolare. Arrivate a Viterbo ci rimasero giusto il tempo perché le autorità decidessero di inviarle presso un campo in provincia di Cosenza dove avrebbero potuto ricongiungersi al padre; dopo due anni circa quel campo venne chiuso per un’epidemia di tifo e malaria, e l’intera famiglia sfollata venne inviata a Casazza, in provincia di Bergamo. Di quel lungo viaggio in treni luridi (così come della permanenza a Viterbo) quando ne avrebbe parlato ormai anziana Edith avrebbe ricordato le bellezze dell’Italia e anche il calore della maggior parte degli italiani (“Gli italiani erano molto umani, mentre gli austriaci erano stati cresciuti nel segno dell’antisemitismo che avevano succhiato col latte”, avrebbe raccontato in un’intervista improvvisata con voce era ancora sognante, sessant’anni dopo, mentre ricordava l’Italia e, avendola scampata, svalutava le proprie disgrazie). A Casazza conobbe un brigadiere dei carabinieri che era sposato con una di Pontevico che abitava alla cascina Casella. L’uomo si prese a cuore il destino di quella povera famiglia ebrea. Pochi minuti dopo che nazisti – che dopo l’otto settembre avevano occupato il nord Italia – gli avevano dato l’ordine da eseguire il giorno dopo all’alba, di andare ad arrestare gli ebrei per trasferirli in Germania, il carabiniere si precipitò ad informare Edith B. del pericolo imminente, intimandole di scappare da qualche parte insieme ai suoi. Ma lei gli rispose che non sapeva proprio dove andare. “Vai alla cascina Casella di Pontevico a nome mio, là qualcuno vi aiuterà”. Così le donne ebree partirono immediatamente, nel giro di qualche giorno raggiunsero a piedi la località della Bassa Bresciana, chiesero di quella cascina e là davvero trovarono aiuto: la cosa che potrebbe apparire incredibile è che protezione e sostegno le trovarono soprattutto nella persona di un’ autorità locale del regime fascista, persona piuttosto in vista a Pontevico che già s’era incaricata, peraltro, di nascondersi in casa un parente che aveva deciso di non presentarsi alla leva della Repubblica di Salò. Le donne rimasero alla cascina Casella fi n che poterono, ma poi il loro protettore pensò desse meno nell’occhio farle andare presso la casa di un Ordine di suore laiche sempre della zona di Pontevico, dove avrebbero lavorato come apprendiste di sartoria (e che apprendiste di lusso,loro che in una sartoria di altissimo livello c’erano cresciute). Cercavano di raggranellare qualche soldo anche insegnando qualche nozione di tedesco, facendo bene attenzione a celare la propria provenienza: Edith fi ngeva di essere un’italiana che conosceva “abbastanza bene” quella lingua il cui uso diventava ogni giorno più necessario per tutti. Ma la sorella una sera, mentre insieme ad altre donne lavorava intorno al tavolo, a proposito del fatto che la stufa stava aff umicando i presenti si lasciò sfuggire un’espressione che insospettì una delle presenti. Disse infatti che “domani riceverete tutte un bel mal di testa”, un verbo del tutto incongruo in italiano, quel “ricevere”… Visse altre vicende apparentemente inverosimili, come il fortuito incontro con un uffi ciale della Wehrmacht che per quelle inspiegabili coincidenze che aff ollano le nostre esistenze altri non era se non il suo vicino di casa di quando era ragazzina a Vienna. La riconobbe, ma non la tradì ed anzi le confessò che ormai aveva abbandonato la fede nazista e tirava avanti in attesa che la guerra fi nisse e nel terrore di essere inviato sul fronte russo. La situazione ormai si era fatta pericolosa anche a Pontevico per Edith B. che decise quindi di trasferirsi a Brescia. Grazie al suo protettore, tuttavia, poté farlo con in tasca dei documenti falsifi cati e la tessera del Partito Fascista Repubblicano. E a Brescia trovò un impiego come interprete e traduttrice alla OM, che all’epoca costruiva i motori per i sommergibili nazisti. Edith B. si ritagliò un ruolo signifi cativo nell’azienda anche se, nello svolgimento di quelle mansioni, talvolta inseriva volontari errori di traduzione veniali e del tutto giustifi cabili in una pur brava interprete, ma ”italiana”. Finalmente arrivò il giorno in cui le riuscì di fuggire in Svizzera. Ed alla fi ne fu una fra i tantissimi ebrei sopravvissuti che a bordo di navi stracariche riuscirono ad approdare alla loro “Terra Promessa”, in quei territori che, sottratti ai Palestinesi , vennero riservati allo Stato d’Israele mediante una risoluzione dell’ ONU dal 1948. In quella terra dove Edith B., fi nalmente defi nitivamente in salvo, fece piantare un albero in memoria di Pontevico, dei suoi abitanti e di quello strano ed indimenticabile fascista e brav’uomo che la protesse e contribuì a salvarle la vita.

di Roberto Bianchi

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