Volontari bresciani
in Mali, impegno
e paura

di Luciano Costa
Dopo l’attentato terroristico nulla è più come prima in Mali
Dopo l’attentato terroristico nulla è più come prima in Mali
Dopo l’attentato terroristico nulla è più come prima in Mali
Dopo l’attentato terroristico nulla è più come prima in Mali

Per trovare notizie sul Mali, nazione del centro Africa, fino a qualche giorno fa era necessario navigare a lungo tra le pagine di internet dove, magari, qualche internauta aveva postato cronache e notizie, oppure sfogliare le pagine de «l’Osservatore Romano», quotidiano della Santa Sede, voce del Papa, finestra aperta sul mondo e coscienza critica di una società disattenta alle sue molteplici miserie. Poi, l’assalto dei terroristi in un albergo della capitale Bamako che ha provocato 27 vittime hanno sbattuto il Mali in prima pagina. Così, l’essere e il divenire di quel Paese, che nel suo vocabolario non trova ancora le parole che spiegano che cosa siano, pace, libertà, democrazia, benessere, tranquillità – più o meno tutte quelle che servono per disegnare civiltà -, sono diventati questione comune, cioè di tutti, anche di noi bresciani.

PER LA VERITÀ, Brescia e il Mali si conoscono, cercano, incontrano, e scrivono insieme pagine di «umanesimo nuovo» da molti anni, cioè da quando, nel 1988, un gruppo di amici di Gavardo, fortificato dall’ardore missionario e benefico di don Mario Pasini, scelse il Mali per dare concretezza all’idea di un modo di fare che si alimentandosi di generosità bresciane doveva tradursi in scuole, ambulatori, ospedali, oratori e chiese costruiti sul posto da diecine di volontari che le loro ferie, il loro tempo libero e la loro pensione li mettevano a disposizione di un Paese poverissimo e sconosciuto, abitato da gente poverissima e sconosciuta. La storia benefica e straordinaria interpretata dagli amici di Gavardo, va in scena, puntualmente, da ventisette anni: l’ultima è in corso a Segou, città povera e disperata dell’est maliano, ed è dedicata al completamento del centro di aiuto intitolato a don Mario Pasini e al suo «Cuore Amico». L’altruismo bresciano si rinnova, con nomi di località nuove – Massala, Niarela e Korofin (due quartieri della capitale), Soukura, Sikasso, Kutiala, San, Bamako, Mopti, Segou… -, ma sempre col Mali nel cuore e nella mente.

L’immagine più vera del Mali, oggi come ieri, è quella che offre il baobab, la grande pianta della savana, grande, possente, rifugio per animali di tutte le specie, riserva di cibo e di elementi medicamentosi, resistente all’arsura con quella capacità tutta sua di impregnarsi di umidità preziosa, maestoso, spesso solitario gigante proteso contro i venti e la sabbia del deserto, ma tremendamente fragile. La sua enorme struttura lignea, infatti, mal si adatta a trasformarsi in oggetti utili. Fin che rimane in piedi, il baobab è ammirato e protetto come un santuario; quando finisce i suoi giorni tra la polvere delle avanguardie di deserto, rimane lì inutilizzato, buono soltanto per i giochi dei bimbi. Triste destino per un colosso che ha visto passare generazioni e generazioni e custodito, nel suo possente cavo, le spoglie mortali dei cantastorie della savana.

DENTRO UN’AFRICA disperatamente alla ricerca di identità, di risorse e di solidarietà che la risollevino dall’atavica miseria, c’è una porzione di terra chiamata Mali: un milione e duecentoquarantamila chilometri quadrati di superficie, quindici milioni di abitanti, altri tre, ma forse molti di più, sparsi nel mondo, emigrati alla ricerca di lavoro e di nicchie di ipotetico benessere. Economia prevalentemente agricola, soprattutto nella fascia attraversata dal Niger, il grande fiume: produce riso, miglio, sorgo e mais per l’autoconsumo, e arachidi e cotono destinati all’esportazione. Quando è possibile. La ricorrente siccità, scardina sistematicamente qualsiasi previsione. Pochissime le industrie, di sopravvivenza il commercio, limitato l’artigianato, quasi inesistente il turismo. Il reddito annuo pro capite supera di poco i seicento dollari: il tasso di alfabetizzazione è inferiore al 50%. Nel precario sviluppo - anzi: nel persistente sottosviluppo -regnano fame, malattie, odi mai sopiti, guerre civili, terrorismo d’importazione, affari loschi che si svolgono tra le dune del desrto e che arricchiscono i mercanti di morte. Eppure il Paese africano vanta una storia di prima grandezza.

Alla fine del primo millennio l’impero maliano estendeva i suoi confini fino all’oceano Atlantico e la sua cultura era riconosciuta ben oltre il deserto. Poi il declino, la colonizzazione, lo sperpero delle risorse, la sudditanza imposta dalle mire espansionistiche della Francia. Così fino alla conquista dell’indipendenza nel 1960. Indipendenza politica, questo sì, ma non ancora un vera indipendenza economica. Nei suoi primi cinquantacinque anni di storia indipendente, il Mali ha conosciuto altri tipi di oppressione: l’invadenza sovietica e cinese, l’asservimento ai servizi di stile francese, il moltiplicarsi quasi paradossale delle rappresentanze internazionali spesso camuffate dietro le sigle degli enti umanitari o rese apparenti dalle costruzioni – ponti, palazzi, strade - innalzate e donate dalle ricche nazioni ai fratelli maliani. Ma basta immergersi, anche per pochi giorni in questo straordinario Paese - straordinario per umanità, costumi, usi incontaminati e saggezza antica-, per rendersi conto che, se si vuole immaginare per lui un futuro diverso, la strada è ancora tutta da percorrere. Bamako, la capitale, oggi al centro dell’attenzione non per la sua storia ma per l’orrore portato dai terroristi nel cuore stesso della sua esistenza, conta quasi due milioni di abitanti e almeno altrettanti che gli gravitano intorno, è una città costruita sulle rive di un fiume che è, al tempo stesso, refrigerio e gran madre dispensatrice di vita e speranza. Ciò non toglie che alle sette di sera il termometro segni ancora trentasei gradi e che di giorno superi i cinquanta. Calore e pulviscolo portato dal vento del deserto rappresentano, non solo per gli occasionali visitatori, una mistura difficilmente digeribile. Impressionante, quando si prende contatto con la città, l’assembramento umano ai lati delle strade. Uomini, donne, bambini, ognuno a vendere quello che può: arance mezzo sbucciate, fritti, banane annerite e piccole, e addiruttura ricambi per auto pazientemente recuperati dalle carcasse lasciate per strada.

OGNUNO fa quello che può: un’antiquata macchina per cucire posta all’ombra di una pianta disegna il perimetro di una sartoria, le grandi foglie secche diventano stuoie, la legna strappata a quel che resta della savana diviene carbonella. C’è una porzione di città vera e propria, modello occidentale; e c’è una città infinitamente più grande, modello quartomondista. Nella prima si possono trovare negozi, alberghi, bar e ristoranti comunque riservati a pochi. Nella seconda ciò che serve al sopravvivere. Vicino alla grande moschea della città c’è anche il mercato dell’oro e dell’argento, ma anche quello delle cianfrusaglie, degli amuleti e delle pozioni raccomandate dagli stregoni e dalle guaritrici. A Bamako si possono anche scoprire i resti dell’antica città coloniale costruita dai francesi per dare continuità alla loro tradizione di conquistatori. Ma di tutta questa tradizione è evidente soltanto il lato affaristico. Per il resto la capitale è niente altro che il solito polo di attrazione africano per i diseredati delle savane inaridite; una città pullulante di mendicanti, in pieno sfacelo, con le grandi strade disselciate e le fogne a cielo aperto, con un popolo di poveri sistematicamente in aumento. Una città che è specchio del Paese di cui è capitale.

«Il Mali – spiegò anni fa il vescovo Luc Sangarè - da solo non ce la farà mai a risolvere i suoi problemi. Adesso è peggio di ieri, soprattutto perché i «qaedisti» e «isisiani» – terroristi invasori, non turisti benefici – non conoscono altra ragione se non quella dell’odio e della violenza. Alle vittime di così orrenda e sporca dittatura, i bresciani che si chiamano «Gruppo Mali di Gavardo», ancora adesso, offrono scuole, ospedali, centri di assistenza, oratori, campi di gioco; anche suore coraggiose - le Operaie di Botticino - sono e restano a Mopti nonostante che dal deserto giungano segnali inquietanti e tragici- e volontari che sul passaporto, accanto al nome, hanno scritto la professione che li accumuna, quella che si chiama «generosità».

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