Baciòcoi, grina e grì annunciano la Pasqua

di Edmondo Bertussi
Il «grì», la raganella in legno che annuncia la crocefissione di Cristo
Il «grì», la raganella in legno che annuncia la crocefissione di Cristo
Il «grì», la raganella in legno che annuncia la crocefissione di Cristo
Il «grì», la raganella in legno che annuncia la crocefissione di Cristo

Si chiama «mattutino della tenebra». Nella forma secolare integrale, profondamente modificata dopo le riforme del Concilio Vaticano II, succede ancora nel Venerdì Santo solo a Pezzaze. È la cerimonia che nel triduo pasquale ricorda Gesù crocefisso e sepolto. La precede il giovedì sera, nella messa dell’istituzione dell’Eucarestia, un altro momento significativo: al canto del Gloria le campane vengono «legate», termine popolare per indicare il tassativo divieto ai bronzi di far sentire la loro voce fino al Gloria della messa della Resurrezione. Tradizione questa conservata anche nel rito moderno.

A PEZZAZE oggi, alle ore 9 nella parrocchiale, inizia il «processo a Gesù» raccontato nel Vangelo. Si accende il «triangolo» con sei candele su ogni lato più una al vertice: ne viene spenta una ogni salmo recitato dell’antico «uffizio». Alla sentenza del «Crucifige», si scatenerà il rumoreggiare fatto dei toni acuti e stridenti dei «grì», da quello basso e cupo della «grina» e da quello ritmico dei martelletti («baciòcoi») sull’asse quadrata, i colpi sordi con le verghe sui banchi.

Stasera alle 20, con paramenti rigorosamente neri, ci sarà la «messa secca», così detta perché senza consacrazione, seguita dalla processione fino al cimitero. Il «mattutino della tenebra» si ripeterà sempre alle 9 domani. Concluderà alle 22 la veglia pasquale e le campane torneranno a suonare. Un rito così ricordato in rima dialettale nella poesia «I Maitì» (tenebre) del giornalista e maestro indimenticato di Marcheno Armando Ricci.

«IL NOSTRO dovere era quello di ricordare / meglio che potevamo / le bande dei soldati / che erano venuti a portar via Gesù / come Pilato li aveva comandati».

In alta valle per i ragazzi la settima prima di Pasqua (allora vacanza scolastica) diventava di «passione» sacra e profana in sfida contradaiola per le corse e funzioni in chiesa ma anche per altri concreti compiti. Si toglievano le catene dal fuoco, nere della spessa fuliggine del lungo inverno, e correvano su e giù trascinandole sui sassi, nella sabbia e polvere, a farle ritornare lucenti.

Poi c’era la «spolverina» che si grattava da sedimenti di roccia friabile: strofinandola su posate e pentole rendeva oro l’ottone e argento l’alluminio. Ma il vero assillo era il proprio «grì»: la raganella custodita tutto l’inverno nel luogo più asciutto della casa. Guai se l’umidità aveva indebolito la lingua di legno, che, bloccata sul supporto a cassetta, sfiorava rigida la ruota dentata pezzo unico, con il manico che scosso la faceva ruotare velocemente: invece del gracidio secco ne sarebbe uscito un rumore impastato e non si era messi nella squadra scelta per le funzioni del Venerdì Santo. Poi usciti dalla chiesa, per bande, si correva a far rintronare i timpani di ragazze e paesani incontrati, anticipo profano tollerato della grande festa di Pasqua.

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