Chat dei bracconieri, denunciati gli ideatori

di Paolo Baldi
L’avatar della chat venatoria
L’avatar della chat venatoria
L’avatar della chat venatoria
L’avatar della chat venatoria

Senza perdere tempo in perifrasi l’avevano battezzata «Salviamo il porto d’armi», e attraverso questa chat blindata di Whatsapp avevano creato una rete di controllo in tempo reale. Bastava un messaggio vocale per avvisare tutti i (tanti) capannisti della bassa Valcamonica collegati dell’avvicinarsi di un’auto di servizio dei forestali (oggi carabinieri forestali), della polizia provinciale, di guardie volontarie come quelle del Wwf o di attivisti di altre associazioni. COSÌ ci voleva poco per smettere di sparare a specie protette, spegnere i richiami elettroacustici o far sparire trappole e reti. La chat funzionava da anni e funzionava benissimo, come quella, identica nello scopo, scoperta tempo fa in Valsabbia. Fino a poche ore fa. Fino alla denuncia dei «creatori», padre e figlio, sorpresi nel loro capanno di Gianico dai carabinieri forestali del Soarda (l’ex Noa, oggi Servizio operativo antibracconaggio e reati in danno degli animali) e denunciati per l’abbattimento di specie protette. Stavolta Whatsapp deve aver funzionato male; o più semplicemente i militari specialisti dell’antibracconaggio sono troppo bravi per farsi fregare da una rete di smartphone e dai relativi possessori. Chissà se la magistratura troverà questa forma di controllo delle forze di polizia interessante per lavorarci sopra? L’avvocato Paola Brambilla del Wwf si augura che «stavolta si vada fino in fondo, perché i controlli sono già ridotti al lumicino generando una sensazione di impunità. Questo sistema clandestino di alert, che assomiglia molto ai metodi mafiosi, deve adesso essere scardinato individuando amministratori del gruppo e iscritti, se così di possono chiamare persone che vogliono eludere i controlli delle forze dell’ordine». Messaggistica salva porto d’armi a parte, di sicuro la magistratura bresciana dovrà occuparsi di molti casi, sono già decine, aperti sempre dal Soarda nei pochissimi giorni dall’avvio dell’«Operazione pettirosso» 2018. Nell’elenco delle denunce che si sono già accumulate c’è di tutto. Fenomeni di illegalità che ruotano attorno all’attività venatoria. Due casi scoperti più o meno nelle stesse ore nelle valli raccontano bene questa realtà: mentre in alta Valtrompia i carabinieri forestali bloccavano due cacciatori vagantisti, il primo per l’uso di un richiamo elettroacustico, il secondo per l’abbattimento di numerosi uccelli appartenenti tutti a specie protette, in alta Valsabbia riemergeva la faccia più arcaica e crudele dell’uccellagione, con la denuncia di un trappolatore a caccia di pettirossi che aveva piazzato una tesa di oltre cento archetti; ormai una autentica rarità. Nel mezzo molto altro: altri capannisti sorpresi sulle tese di reti tra Sebino e Valtrompia, uccellatori grandi e piccoli impegnati a coltivare tese di sep, e come sempre finti allevatori di uccelli, destinati a diventare richiami vivi oppure no, in quanto a volte appartenenti a specie protette, in possesso di decine di esemplari che hanno visto una gabbia o una voliera solo dopo essere stati catturati illegalmente in natura. BEN DUE nell’arco di pochi giorni, entrambi in Franciacorta, gli «allevamenti» in cui non si allevava nulla o quasi (uno appartenente a un operatore importante, ben conosciuto sul mercato), in cui sono stati portati a termine sequestri. Perché gli anellini di riconoscimento piazzati sulla zampe dei volatili erano stati manomessi in modo da essere collocati non su pulcini, ma su esemplari adulti catturati con le reti. •

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