Galleristi in galleria

Il gallerista Massimo Minini e la sua sfida lunga oltre mezzo secolo «per mostrare sempre qualcosa di nuovo»

di Elia Zupelli
Dal 1973 con la sua prima galleria "Banco" in una visione proiettata in avanti. Fino ad oggi nel "riassunto" della migliore arte contemporanea degli ultimi 50 anni
Il gallerista Massimo Minini, originario del lago d'Iseo. Il prossimo 14 settembre compirà 80 anni
Il gallerista Massimo Minini, originario del lago d'Iseo. Il prossimo 14 settembre compirà 80 anni
Il gallerista Massimo Minini, originario del lago d'Iseo. Il prossimo 14 settembre compirà 80 anni
Il gallerista Massimo Minini, originario del lago d'Iseo. Il prossimo 14 settembre compirà 80 anni

Un po’ abitudine quotidiana, un po’ azione performativa, Massimo Minini nel primo pomeriggio si dedica con allure disinvolto alla sua quotidiana, corroborante sessione di stretching fra quadri, libri e una miriade di biglietti, bigliettini, frammenti, appunti, corrispondenze, testimonianze ed esperienze - corporee ed extracorporee - che riassemblate restituiscono i tratteggi di una vita dedicata all’arte.

Questione di elasticità: fisica, mentale, muscolare, intellettuale. Ma anche di lungimiranza, acume, profondità, ironia, sensibilità, spregiudicatezza e un altro elenco di qualità che potrebbe essere lungo come una guida telefonica.

La sua prima galleria

Strumento ormai desueto, archeologico, ch’eppur scorreva fluente sotto alle dita degli italiani, con le sue pagine impalpabili fitte di cifre e inchiostro, anche in quell’ottobre del 1973, quando tutto doveva ancora accadere. Quando la sua prima galleria - nome in codice: Banco, «nata da un'improvvisa e inattesa decisione mia e del mio amico Enrico Pedrotti: io avevo il know how, lui aveva una stanza» - stava per debuttare nel cuore della città che sale. Con la benedizione sconsacrata di un certo Guglielmo Achille Cavellini noto anche come GAC, già allora pubblicamente evocato in quanto «fenomeno artistico irripetibile, il più sconcertante di tutti i tempi, da vedere e da studiare», che di fronte alla dichiarazione d’intenti di Minini con sintomatico mistero commentò alzando il sopracciglio. «Quel sopracciglio ha un po’ cambiato la mia vita».

La mostra numero 1

Abbagliando quella prima mostra che ancora oggi riecheggia, la «numero uno»: «Una collettiva organizzata in cinque minuti», riavvolge il nastro Minini con la solita, intrepida sagacia che applica all’eloquio come all’esercizio posturale. «Cinque quadri miei, cinque di Tizio, cinque di Sempronio. Però c’erano Ben Vautier, Sol Lewitt, Giorgio Griffa, Marco Gastini, Gilbert & George. La mia intenzione era mostrare ai bresciani quello che nessuno aveva mai mostrato prima». Così fu e così continuerà a essere. Anche dopo il «trasloco» nell’attuale, omonima sede di via Apollonio, dove tuttora vigono fermento e creatività, filtrati con ordine architettonico tra geometrie, volumi e pareti intrise di un bianco che sa di razionalità e minimalismo.

Il percorso

A distanza di mezzo secolo, la trama della storia ancora non è cambiata: semmai s’è fatta più intricata e avvincente, a immagine e somiglianza di questi nostri tempi tanto amati e tanto odiati. Dietro cui c’è sempre lui. Con la sua visione proiettata in avanti. The importance of being Minini: «Vengo da una famiglia dove l’arte era di casa. La mamma suonava il piano, dipingeva mazzi di fiori. Ma la vera passione è divampata diversi anni più tardi. A scuola si arrivava fino al ’700 e stop: ‘Dopo succederà ancora qualcosa ma purtroppo non abbiamo più tempo’, dicevano. ‘Chi vuole si può informare da solo’. Ho detto ‘Va bene’. E così feci».

«In realtà - prosegue - non volevo fare l’artista, all’inizio era un interesse vago. Studiavo Legge, ma l’arte covava sotto la cenere. Milano mi aprì gli occhi. Frequentavo gallerie, librerie, seguivo il dibattito sui giornali, allora era acceso e fervente. Morandi e De Chirico erano gli intoccabili, Manzoni, Fontana, Castellani considerati dei furbacchioni: sappiamo tutti come è andata a finire. In quel periodo, poi, diventai amico e confidente di Franca Ghitti, grande artista camuna che aveva studiato a Brera e frequentato l'Académie de la Grande Chaumièr a Parigi».

Dai mobili...alle opere d'arte

Prima di iniziare a vendere opere d’arte - la cui grandezza, come sosteneva Gottfried Benn in una citazione che gli è cara, si deve al fatto che sono «apparizioni, prive di efficacia storica e di conseguenze pratiche» - e quindi legittimarsi come «gallerista atipico, uomo colto, curioso e comunicativo», per cui scoprire talenti «è un piacere, una scommessa, un azzardo, una lotteria, un dovere, un bisogno, un sogno, un atto di coraggio, una promessa» (ipse dixit), Minini vendeva mobili.

Nel mezzo, l’addio al cursus honorum in Legge e la scelta radicale di lanciarsi in un vortice che a Brescia, intorno agli anni ’70, dal Minotauro alla Sincron passando per la Galleria dell’Incisione di Chiara Fasser (aperta nel 1972 e tuttora in attività), contava una ventina di altri avamposti illuminati. «Una volta c’era più attenzione da parte di pochi, ora c'è poca attenzione da parte di molti. Ma per il resto non è cambiato molto: se 10 persone nel mondo dell’arte dicono che uno è buono e si mettono d’accordo, tutti gli altri drizzano le antenne. Vale per l’Italia come all’estero: Svizzera, Francia, Belgio, Olanda sono i Paesi dove ho sempre lavorato e venduto di più e che in qualche modo mi hanno permesso di evolvere e restare al passo coi tempi dell’arte».

BgBs23

E della storia, delle sfide del presente e del futuro: «Brescia Capitale della Cultura? La gente è venuta numerosa e questo è già un buon risultato, ma non sono rimaste le strutture, non è cambiata l’immagine della città. In questo senso si è rivelata un’occasione persa. Del resto le mostre vanno e vengono e di loro non rimane quasi mai niente».

A proposito di mostre, Minini sta ancora aspettando quella dedicata a Lattanzio Gambara, per non parlare del «vecchio» progetto di un museo d’arte contemporanea «in questa città dove il contemporaneo da sempre fatica ad attecchire». Eppur di sognare mai si smette: «Nel mentre lavoro a un libro su Dan Graham, una raccolta di corrispondenze, che immagino stampate su un formato A4».

Altri progetti, altre utopie? «Direi di no, sono impegnato a sistemare le mie pendenze della vita». Non ultima, il sempiterno rapporto col mercato. «Che - conclude Minini - potrei riassumere così: quando hai l’acqua alla gola devi imparare a nuotare… Non è molto diverso da quello che dico agli artisti quando mi chiedono ‘Massimo, come si fa?’. A loro ancora oggi rispondo: ‘Buttati nella mischia, cerca di conoscere della gente poi tanti auguri’».

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