STELLETTE A SEI PUNTE

di Stefano Biguzzi
Il sottotenente Guido Brunner, caduto a 23 anni a Monte FiorUmberto Beer (braccio al collo) e gli Arditi dopo i fatti del Col Moschin
Il sottotenente Guido Brunner, caduto a 23 anni a Monte FiorUmberto Beer (braccio al collo) e gli Arditi dopo i fatti del Col Moschin
Il sottotenente Guido Brunner, caduto a 23 anni a Monte FiorUmberto Beer (braccio al collo) e gli Arditi dopo i fatti del Col Moschin
Il sottotenente Guido Brunner, caduto a 23 anni a Monte FiorUmberto Beer (braccio al collo) e gli Arditi dopo i fatti del Col Moschin

Nel loro intersecarsi in questo 2018, il centenario della Grande Guerra e l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali si offrono come irrinunciabile occasione per ricordare il contributo degli ebrei italiani nella Grande Guerra. L’infamia annunciata il 14 luglio 1938 da uno pseudoscientifico «Manifesto della Razza» e suggellata il 18 settembre dal discorso che Mussolini pronunciò a Trieste, in una delle città a più forte presenza ebraica e al termine di un giro nel Triveneto per celebrare il ventennale della vittoria, aveva infatti un ulteriore elemento di vergogna e disonore nel dichiarare estranea al corpo della nazione una componente che era stata sempre in prima linea nelle lotte per la costruzione di un’Italia libera e unita. Il primo conflitto mondiale, vissuto come quarta guerra d’Indipendenza, aveva rappresentato per gli ebrei il culmine della partecipazione al Risorgimento nel segno di un processo di assimilazione in cui amor di patria e pieno riconoscimento dei diritti civili erano avanzati di pari passo. Uguale in termini percentuali a quella degli altri italiani, la presenza ebraica in grigioverde, accresciuta dai volontari irredenti accorsi a combattere sotto il tricolore e da altri provenienti da Nordafrica, Turchia e Grecia, si è attestata secondo gli studi più recenti intorno alle 5.500 unità, con circa 420 caduti. Questi soldati non subirono alcun genere di discriminazione confermando l’Italia postunitaria (ebrei erano stati un presidente del Consiglio, diversi ministri, un sindaco di Roma e l’istruttore militare di Vittorio Emanuele III) come eccezione assoluta nel panorama di un’Europa imbevuta di antisemitismo. Un altro elemento degno di nota è rappresentato dal numero molto alto di ufficiali, quasi la metà del totale, con 220 tra quelli superiori e una ventina di generali, riflesso dell’elevato grado di istruzione che connotava un mondo ebraico dove l’analfabetismo era meno di un decimo rispetto alla media nazionale. Il terzo aspetto rilevante è quello dello straordinario coinvolgimento ideale testimoniato da un migliaio di decorazioni tra le quali cinque medaglie d’oro; anche in questo caso, con un numero di riconoscimenti al valore sette volte più grande rispetto alla media, il dato percentuale è più che eloquente. A queste cifre corrispondono volti e storie che ci restituiscono il meglio della tradizione militare italiana: il generale Roberto Segre, geniale comandante delle artiglierie che difesero il monte Grappa, il colonnello Ettore Ascoli, uno dei suoi più stretti collaboratori, congedato perché ebreo nel 1938 e caduto nel 1943 combattendo nelle file della Resistenza, il tenente Umberto Beer, valorosissimo ufficiale degli Arditi in quel IX Reparto d’assalto che all’alba del 16 giugno 1918 riconquistava il Col Moschin, Emanuele Pugliese, il nostro generale più decorato o Giorgio Liuzzi, pluridecorato capitano di artiglieria che tra il 1954 e il 1959 sarà capo di Stato maggiore dell’esercito. E poi ci sono le cinque medaglie d’oro: Giacomo Venezian, insigne giurista, 54enne maggiore di complemento colpito in fronte nel 1915 mentre con i suoi fanti si lanciava all’assalto delle posizioni austriache di Castelnuovo del Carso; Guido Brunner, irredento triestino, sottotenente della Brigata «Sassari» caduto 23enne nel 1916 a Monte Fior; l’artigliere Giulio Blum, volontario a 62 anni, due volte ferito, promosso tenente per meriti di guerra, caduto nel 1917 guidando un gruppo di fanti all’assalto dell’Hermada; Dario Vitali, 19enne aspirante ufficiale degli Arditi distintosi nel 1918 sul Col della Beretta; il caporale Roberto Sarfatti, volontario nel 6° Alpini, caduto 17enne sul Col d’Echele mentre andava all’attacco di una munitissima posizione dopo aver appena catturato trenta prigionieri in un precedente assalto. La madre di quel giovane eroe, Margherita, era l’intellettuale di vaglia che, legata per un breve periodo da una relazione sentimentale con Mussolini, avrebbe avuto un ruolo cruciale nella vita del futuro duce segnandone profondamente la formazione culturale e dando un contributo decisivo alla costruzione del suo mito con la celeberrima biografia DVX. Nel 1938, come a tutti gli ebrei, le venne notificato che né lei né suo figlio appartenevano alla «razza italiana». Viltà nella viltà si annunciava nel contempo un trattamento privilegiato per gli ebrei che avevano avuto benemerenze nella Grande Guerra. Di lì a qualche anno, tutti presi dallo strisciare ai piedi dei tedeschi, i fascisti di Salò si sarebbero rimangiati anche quella «concessione» abbandonando anche gli ex combattenti ebrei nelle mani delle SS impegnate ad attuare nell’Italia occupata la «Soluzione finale del problema ebraico». Spregevole nel 1938 il cinismo di Mussolini, ma altrettanto ignobile il comportamento di chi avrebbe potuto e dovuto contrastarlo e si guardò bene dal farlo, per vigliaccheria, opportunismo o semplice conformismo, uno su tutti il «Re soldato» per il quale vent’anni prima, al grido di «Savoia!» gli ebrei italiani erano andati a combattere e morire da valorosi. Nelle tenebre dell’infamia razzista qualche luce di nobile coraggio continuò però a brillare. Tra le più luminose va ricordata quella di Ernesta Bittanti che sfidando una delle tante inqualificabili angherie poste a corollario delle leggi razziali, ovvero il divieto di pubblicare necrologi di ebrei, inviava al «Corriere della sera» questo: «La vedova di Cesare Battisti annuncia in pianto ai superstiti amici dell’eroica vigilia di Trento e Trieste la morte del figlio di Salomone Morpurgo e Laura Franchetti, l’ingegner Augusto Morpurgo, volontario e decorato della grande guerra come l’unico fratello caduto ventenne sulle Alpi trentine confermando la fede e la tradizione paterna e materna per la Patria italiana». L’annuncio funebre, che nessuno ebbe l’ardire di censurare, uscì ma mutilato dell’ultima parte; quel richiamo al patriottismo degli ebrei suonava evidentemente troppo scomodo e imbarazzante per la sporca coscienza dell’Italia fascista. •

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