Davide De Zan

di Chiara Roverotto
Davide De Zan , 1962, giornalista e conduttore televisivoIl secondo libro verità su Pantani
Davide De Zan , 1962, giornalista e conduttore televisivoIl secondo libro verità su Pantani
Davide De Zan , 1962, giornalista e conduttore televisivoIl secondo libro verità su Pantani
Davide De Zan , 1962, giornalista e conduttore televisivoIl secondo libro verità su Pantani

Ci sono giornalisti che filmano, registrano e vivisezionano: ogni gesto, ogni tecnica, ogni stile. E scrivono il referto. O meglio, il pezzo, che sia fatto di parole oppure di immagini. Aveva iniziato Adriano De Zan, telecronista sportivo e conduttore televisivo. Aveva fatto del ciclismo uno schema da mettere sotto il microscopio. Scalate, tempi, ruote, uomini, tecnologia. Stroncato a 69 anni da una leucemia, su quel podio è salito il figlio Davide (1962). Il ciclismo diventa un pezzo di poesia che segue i tornanti del Giro d’Italia, quelli del Tour de France, le volate della Milano-Sanremo che ha nomi importanti come lo spagnolo Indurain, Virenque, Ullrich, Gotti, Pantani solo per citarne alcuni. Ma con Pantani non c’è solo un rapporto tra giornalista e stella nascente del ciclismo italiano. C’è molto di più: interesse, amicizia, condivisione, la gioventù che passa con un microfono in mano oppure in sella ad una bicicletta. Ecco perché De Zan alla vita sbagliata di Marco ci ha creduto, ma fino ad un certo punto. Su di lui ha scritto due libri «Pantani è tornato» (che è stato un caso editoriale per lungo tempo) e il secondo «Pantani per sempre» (edito da Pienogiorno, 248 pagine, 18,50 euro), uscito nello scorso novembre. Un libro che non smette di chiedere giustizia, di aggiungere tasselli e raccontare. Come fosse un giro su una ruota panoramica tra tornanti, montagne, che insegna come vincere, senza smettere. Come rivincere senza stancarsi. Non è una felicità ubriaca, ma uno schema da mettere ancora sotto il microscopio. Come dire: imparate. Perché, se la vicenda di un campione come Pantani è incastrata nei raggi del cuore di ogni amante del ciclismo, ci sarà un motivo. Perché, a vent’anni dall’ultima corsa, quell’amore «pirata» per Marco è più vivo e attuale che mai. De Zan che cosa svela in questa seconda pubblicazione? Innanzitutto ho condiviso con lui un pezzo di strada, e porto dentro di me il dolore per tutto quello che gli è accaduto. Poi, avevo fatto una promessa a sua madre Tonina: avrei raccontato la storia. Vera. Pantani è stato ucciso due volte: la prima a Madonna di Campiglio con la sua discussa positività e la seconda a Rimini quando lo trovarono morto nella stanza di un residence. Torniamo al libro senza fare troppe rivelazioni che lasciamo ai lettori. Tra le pagine credo esistano prove ed elementi, finché, tutti possano trovare una risposta su quanto è accaduto. Nella prima pubblicazione c’era un’indagine giudiziaria in corso e non potevo rivelare nulla. In quest’ultimo, grazie ad alcune testimonianze che ho raccolto, posso dire che quello di Pantani più che un mistero è stato un omicidio. E, mi verrebbe da aggiungere, che chi l’ha commesso è ancora a piede libero. Qualche prova? Le testimonianze degli infermieri che accorsero dopo la chiamata al residence «Le rose» di Rimini il giorno di San Valentino del 2004. Non videro alcun bolo di pane e cocaina che invece venne rinvenuto più tardi. Quella doveva essere la prova del delirio psicotico di Pantani che si cibava di pane e coca, invece non esisteva. E gli infermieri, erano tre, abituati a registrare tutto quello che si trovava sulla scena di un intervento, l’hanno sempre detto: «Non c’era nulla». Quindi quel bolo è stato messo dopo per completare una scena del crimine fasulla. Senza contare che all’interno della stanza era tutto a soqquadro, ma nulla era rotto. E non c’erano telecamere nel garage del residence per cui poteva salire chiunque eludendo ogni controllo. Come giustifica tutto questo? Non lo giustifico, credo che Pantani meriti verità. E non corrisponde a quella che è stata scritta nella prima inchiesta. Ad indagare allora fu la Procura di Forlì che dovette passare all’archiviazione perché erano finiti i termini per provare il reato di frode sportiva. Siamo nel giugno del 1999, si parlava di deplasmazione per asserire che la provetta era stata manipolata. Gli esami del sangue su Pantani evidenziarono un valore dell’ematocrito eccedente: 52 per cento, rispetto al limite consentito del 50 per cento. Spesso si disse il macchinario era stato tarato male. Seguiranno altri libri? Non credo. Il secondo volume l’avevo promesso all’editore e, come dicevo all’inizio, a sua madre. Ma qualche passo in più verso la verità credo sia stato compiuto. Pantani era uno sportivo divisivo? Assolutamente sì. Amava il ciclismo come nessuno al mondo. Alfredo Martini, storico commissario tecnico della nostra nazionale aveva visto Bartali, Coppi e fu lui ad ammettere che non aveva mai conosciuto un ciclista andare così forte in salita. E, anche mio padre lo pensava, e quella passione mi è stata trasmessa. Poi, era amato dai suoi tifosi e detestato da tutti quelli che perdevano. Ma era normale. Assomigliava di più a Gino Bartali o a Fausto Coppi oppure a Moser, Saronni? Non era paragonabile ad alcun corridore del mondo antico e moderno. A mio padre, che spesso si commuoveva, dava le medesime emozioni di Fausto Coppi. Perché ad un certo punto la sua vita deraglia? Non riuscì a sopportare quanto accadde a Madonna di Campiglio, la squalifica gli fece perdere un Giro d’Italia che avrebbe vinto anche se gli tagliavano una gamba. Aveva subito un’ingiustizia. Da re si tramutò in un reietto, in un manigoldo. E tutto in 5 minuti. Non riusciva a superarlo. Ed iniziò a consumare cocaina? Per lui era una sorta di anestesia dell’anima, il dolore era talmente grande che non riusciva a superarlo. Era stato marchiato a fuoco per un’infamia. La cocaina non gli serviva certo per i festini. Che carattere aveva? Era sincero, schietto, dava un grande valore all’amicizia. L’ho conosciuto quando era un dilettante e poi da professionista, quando correva con il capitano della squadra italiana, Claudio Chiappucci. Ma voleva lasciare il segno, sapeva di potercela fare. Mise in crisi Indurain, che era il favorito, al Tour de France. Poi nel libro racconto anche delle sue imprese sportive. Un capitolo meraviglioso. Indimenticabile.•.

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