«I volonterosi carnefici di Hitler?» I tedeschi

Daniel J. Goldhagen: scrittore
Daniel J. Goldhagen: scrittore
Daniel J. Goldhagen: scrittore
Daniel J. Goldhagen: scrittore

«I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto». Si intitola così il libro di Daniel J. Goldhagen sulla Shoà uscito in Italia nel 1997 e rieditato pochi mesi fa con una importante revisione scientifica. Saggio destinato a suscitare dibattiti e polemiche per la sua inedita tesi storica, antropologica, politica: non fu Hitler a manipolare i tedeschi ma i tedeschi a creare Hitler. In nome dell’antisemitismo. Come a dire che il nazismo fu la logica conseguenza di un sentiment che possedeva la Germania da tempo, da quel Medioevo in cui chiesa cattolica e protestante s’unirono nella persecuzione degli ebrei, rei d’aver crocefisso il Cristo. Nel suo film sulla passione, Mel Gibson sostiene l’immondabilità di una colpa che nei secoli ha generato un odio feroce. E «giusto». Oltre che a più strati socioculturali. Goldhagen ne snocciola la sequenza, dimostrando come proprio in quell’800 in cui la Germania brillava in tutti i campi Europa l’antisemitismo abbia ripreso vigore dopo la pausa del secolo di quei Lumi grazie ai quali la filosofia aveva finalmente smesso i panni di servetta scema della teologia, con le salutari conseguenze sul piano dell’assolutismo religioso. Un loop culturale, quindi, produttore di un antisemitismo poi cresciuto esponenzialmente, fino alla debole – e colpevole – Weimar, per coincidere infine con quel nazionalsocialismo che coronerà – finalmente – il sogno antico di spazzare via il giudaismo. L’abbrivio dell’autore è una constatazione: «L’Olocausto ha avuto origine in Germania, è quindi principalmente un fenomeno tedesco. Questo è un fatto storico. Chi vuole spiegarlo deve concepirlo come una fase evolutiva della storia tedesca». Gli attacchi a questa tesi non sono mancati, anzi. I più consistenti, dall’area liberal e di sinistra, giacché l’opposizione interna al regime esce a pezzi dall’analisi di Goldhagen. Nel senso che non esiste. Un dato antistorico (vedi le elezioni precedenti al cancellierato di Hitler). Resta tuttavia incontestabile che la Germania fosse pervasa da un antisemitismo largo per ceto (poche le eccezioni, vedi Io no di J. Fest, Garzanti) e luoghi (cioè nei territori occupati dal Reich, vedi L’inferno di Treblinka di V. Grossman, Adelphi). Innumerevoli gli episodi, sostenuti da documenti, testimonianze, deposizioni in tribunale, sul piano economico, situazionale, ideologico, oltre che razziale. Negli anni ’30 germanici il giudaismo era una croce (a forma di stella gialla) da portarsi appresso per strada, dove si rischiava qualsiasi angheria da parte di padri, madri di famiglia, ma anche di qualche ragazzino, non delle SS. Un punto su cui insiste Goldhagen è proprio la responsabilità individuale. E fu poi «la collettivizzazione di quell’odio a rendere possibile la Shoà». (Fra gli episodi, quello di un ufficiale SS che porta la moglie ad assistere come divertimento a una deportazione). Il nazista e il tedesco comune sfumano così in un unico profilo. Le esecrazioni alle crudeltà perpetrate non sono solo poche, ma espresse più per la loro forma che per la loro sostanza. Se è vero che ogni guerra declina sempre il peggio di cui l’umanità – trasversalmente a livello geopolitico – è capace, è altrettanto vero che ben prima della tragedia mondiale, gli ebrei furono sottoposti a violenze d’ogni genere sul suolo tedesco, da parte dei tedeschi: «La notte dei cristalli» del 9-10 novembre 1938, né è l’esempio più clamoroso, non l’unico.•. P.C.

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