Il bianco e nero: Brescia e l'arte di Elisabetta Dolcini

di Alessandra Tonizzo
«Racconto per immagini, dedicato alla città e a chi non c'è più; fotografie di quando eravamo in zona rossa, blindata, alcune tratte dalle finestre di casa»
«Il chiaro e lo scuro» è in mostra al chiostro della chiesa di San Francesco, nell'omonima Piazzetta, in città
«Il chiaro e lo scuro» è in mostra al chiostro della chiesa di San Francesco, nell'omonima Piazzetta, in città
«Il chiaro e lo scuro» è in mostra al chiostro della chiesa di San Francesco, nell'omonima Piazzetta, in città
«Il chiaro e lo scuro» è in mostra al chiostro della chiesa di San Francesco, nell'omonima Piazzetta, in città

Dèi morenti e mutaforma. Hanno svelato, gli eventi, la nostra irriconoscibilità: ora sta lì, tra scarti di pellaccia, tra «Il chiaro e lo scuro». Nel bianco e nero di Elisabetta Dolcini filtra più luce di quel che meriteremmo. Il gigantismo e la piccineria. La solitudine e la disobbedienza. Una cinquantina di scatti - la vernice ieri, alla chiesa di San Francesco - che sono subito reperti, odorano uguale al cuoio del primo cavallo sellato. Questo ieri dentro all'oggi viene chiamato dalla sociologa bresciana «racconto per immagini, dedicato alla città di Brescia e a chi non c'è più; sono fotografie in gran parte rubate, fatte quando eravamo in zona rossa, blindata, alcune tratte dalle finestre di casa». Sette mesi di lavoro (febbraio-agosto 2020), l'otturatore che sbatte come una palpebra impazzita. Malata, anch'essa, di perniciosità. Un quagliodromo di prede estinte e cani stanchi, l'urbe. Bellissima già solo perché sbucciata del primo strato fossile - i gas, i mezzi, i rombi, lo zozzo; si mostra vulnerabile e gentile dentro ai calchi nativi di muri, santuari e asfalti mentre qualcuno la sorvola diagonale, quasi in sogno. Lungo gli argini di desertici mesi, durati ere, gli occhi scorrono pensando «lo so», quando il petto si svuota (ancora) di qualche colpo essenziale. Fuori ritmo, scucite, le istantanee narrano l'abitudine ultima, non tanto di termometri o mascherine quanto di provvisorietà e poca ombra poiché l'essere umano, rintanato, non la getta più. «Stiamo metabolizzando le emozioni provate che ci pongono faticosamente un'esistenza diversa, senza certezze e con rituali nuovi», commenta Dolcini, «Le immagini, questa volta, non hanno il commento: il periodo è stato molto faticoso per tutti; anche scegliere le fotografie, tra alcune migliaia, non si è rivelato emotivamente semplice". Dicono comunque i volti, impressi nella stampa fine di Felice Andreoli. La noia dello stupore ostinato, un boccheggiamento che la pellicola ghiaiosa acuisce al pari delle scenografie cinematografiche, degli oggetti di scena - così pregni d'iconicità, di profano crisma, da sembrar fittizi. La natura, alla quale spetta l'unico tocco di colore, ricorda invece che ogni cosa è vera. E che se la stiamo rimirando, nel verde nell'azzurro, siamo tragicamente vivi; abbisogniamo una rasoiata alle basette, una libbra di carne, una rivista garrula, dei polpacci da pedalare. Prendono in prestito la vita, le statue del Vantiniano, fanno la loro marcia pesante - coi drappi inchiodati, con molli guance marmoree -, strisciata per i vicoli agglutinati nel dolore aperto. «Il chiaro e lo scuro» è in mostra al chiostro della chiesa di San Francesco, nell'omonima Piazzetta, in città, fino al 20 giugno, dalle 9 alle 12, e dalle 15 alle 18 (elisabetta.dolcini@libero.it).•.

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