Oltre la fine dell’amore Carlo Simoni e il Garda

La fotografia scelta per la copertina del nuovo libro di Carlo Simoni
La fotografia scelta per la copertina del nuovo libro di Carlo Simoni
La fotografia scelta per la copertina del nuovo libro di Carlo Simoni
La fotografia scelta per la copertina del nuovo libro di Carlo Simoni

«Ciò che rimane / Alla fine di un amore / Son solo cose tristi / Che chiedono al mio cuore / Di rimanere con me». Viene in mente la malinconia di Fidenco mentre si inizia a leggere il nuovo libro di Carlo Simoni, Liberedizioni, ma già il titolo ci avverte che c’è dell’altro. Ne «Il tempo del lago» l’amore e la sua fine, pur dolorosamente presenti, diventano contenitori dei temi cari all’autore e stimolo a mille domande. L’intreccio non è soltanto una storia, è un percorso, non ci sono azioni o trame ma chiavi esistenziali. Il luogo è il sempiterno Benaco, «della nostra sponda», dal quale fuggire in gioventù, da ritrovare per restare, a osservare, a riflettere, a dubitare, a ricostruirsi in un nostos che ci richiama un altro amante da entroterra gardesano, Franco Piavoli. Il tempo è quello dei ricordi, delle vecchie immagini ingiallite, della loro forza di memoria non semplicemente retroattiva; è lo scorrere delle persone ma anche degli spazi, come accadde per il fiume che, dai ghiacciai, riempì la valle di onde che non si fermano. Ed è il tempo che può svuotare di intensità le relazioni, ammutolendo le parole, annebbiando in nostalgia irreversibile. La domanda è: come si può guardare il tempo e lo spazio, da soli o per gli altri? Come si possono raccontare, descrivere, fotografare, dipingere, il tempo e lo spazio? Esistono anche senza essere letti, leggibili forse solo in solitudine. L’interrogativo sulla percezione del reale e sugli strumenti per darle corpo, sul senso stesso del suo darci un libro e del nostro gustarlo, pervade le pagine di Simoni e si sintetizza nel protagonista che è fotografo ma scrive, che alla fine però impara puramente a guardare, solitario. «Senza condividere il mio sguardo», senza il bisogno di graffiare un foglio o impugnare la macchina fotografica, senza cercare niente, nemmeno il perché, arrivando «a non vedere altro che un mutamento sempre in corso, di tutto, anche di se stessi». «Ero lì, non chiedevo nulla al mondo, volevo essere lì, dentro lo spazio del lago come l’anitra che lo sorvolava, il gabbiano che faceva le sue evoluzioni». Il filosofeggiare, suggestivo nel linguaggio ricco e comunque potentemente descrittivo, viene interrotto nel finale; la realtà, non le sue sensazioni, irrompe quando un virus si insinua fino all’Alto Garda, stravolgendo il registro dello scrittore e i pensieri evaporanti dalle acque. Irrompe, ma «io giro la sedia, per guardare».•. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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