«Portatore di verità»:
Bregoli Dante d’Oro

di Alessandra Tonizzo
La premiazione bocconiana del bresciano Fabrizio Bregoli
La premiazione bocconiana del bresciano Fabrizio Bregoli
La premiazione bocconiana del bresciano Fabrizio Bregoli
La premiazione bocconiana del bresciano Fabrizio Bregoli

Un lungo racconto o un romanzo breve. La vita di un poeta quale sfumatura sceglierebbe per dirsi. Raccontando ai più «Cose che io non so fare. Nominarle appena» (Vittorio Sereni, «Fissità», 1981). Perché non si insegna a scrivere poesia. «Con quel rovello si nasce», raccomanda Bregoli, di nome Fabrizio, in arte se stesso, nell’arte scomoda del versificatore.

Sereni sapeva eccome, tuttavia. Punteggiava la Linea Lombarda di contemplazioni pratiche, mentre studiava licheni liguri. Lo stesso concreto intento che l’ingegnere bresciano insegue per «sporcarsi le mani in questo mondo, lontano dalla lirica e dall’intimismo, all’opposto della chiusura dell’io».

Bregoli – nato a Leno nel 1972 e vissuto a Gambara, ora in Brianza – sceglie un sillabario scarno nello spiegare come un progettista riesca a comporre versi che cuciono immagini, che vincono premi. L’ultimo è il Dante d’Oro (seconda edizione di un riconoscimento che, a livello onorario, è stato conferito a personalità come Camilleri, Mazzantini, Ammaniti e Alexievich), assegnatogli a maggio da una giuria di studenti e alunni dell’università Bocconi di Milano.

«QUESTA MIA PASSIONE risale all’adolescenza, periodo in cui ho composto alcuni versi imitativi degli autori preferiti, e la familiarità con la scrittura è ritornata alla soglia dei quarant’anni, con i primi testi originali». Pavese prima, Montale, Saba e Gozzano poi, un verseggiare «del territorio», adesso, stretto attorno all’ala del poeta civile, del cronachista senza prosa – Orelli, Erba, Risi, per capire, «e Sereni, soprattutto Vittorio Sereni» –: le influenze di Bregoli, l’approdo al tangibile, al caos che infuria più fuori che dentro. «Banlieue Shahid» (termine arabo, quest’ultimo, che significa «portatore di verità», «testimone o martire della fede») tratta il tema del terrorismo islamico, ed è la poesia vincitrice fra le dieci finaliste, dopo una selezione di oltre 400 testi, del Dante d’Oro 2017.

«Svanire è un attimo ti dicono/ e con nenia di zucchero ripetono/ è un lampo impercettibile di buio». Nessuna indagine sociologica, nessun giudizio etico. Solo «un quadro netto», lo spoglio delicato e visionario di un giovane «sedotto dalla prospettiva del martirio, portato al capovolgimento dei valori, a ritenere la morte degli altri strumento di redenzione». Quasi una fotografia.

L’ingegnere-poeta gira l’Italia presentando il suo lavoro, «ibridazione di stili e linguaggi». «Il senso della neve» (Puntoacapo 2016, vincitrice al Rodolfo Valentino di Torino) è l’ultima rassegna, firmata in calce da Tomaso Kemeny, fondatore del Mitomodernismo. Metamorfosi e bellezza ed eroismo, poesia attiva puntata alla tempia della decadenza. Armata di speranza laica, per ogni periferia.

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