LA SVOLTA

Addio al reddito arriva la «mia»

di Antonio Troise

Per ora è solo una bozza, che potrebbe subire modifiche anche sostanziali nei prossimi mesi. Ma la rotta che il governo vuole seguire per riformare il Reddito di Cittadinanza, è chiara: fare una netta separazione nella platea dei 2,5 milioni di italiani percettori del sussidio, fra chi è in grado di lavorare e chi, invece, rientra nella categoria dei cosiddetti «non occupabili». Nella sua travagliata vita, da quando dal balcone di Palazzo Chigi i leader dei Cinquestelle, all’epoca azionisti di maggioranza nel governo giallo-verde, annunciarono la «fine della povertà», il reddito ha mostrato tutti i suoi limiti. Soprattutto sul fronte della creazione di nuovi posti di lavoro. E questo anche al di là delle evidenti distorsioni di un sussidio che troppo spesso è finito nelle tasche di chi non ne aveva assolutamente diritto. Ora, con la riforma fortemente voluta dal Centrodestra, non solo cambierà nome, diventando Misura di Inclusione Attiva (Mia), ma nelle intenzioni dovrebbe portare anche un cospicuo risparmio per le casse dello Stato, calcolato fra i due e i tre miliardi di euro. Sarebbe un grave errore, però, ridurre la riforma ad una semplice questione contabile. In tutti i Paesi avanzati esistono diversi strumenti di contrasto alla povertà. Ed è giusto che la collettività si faccia carico, in qualche modo, dei cittadini che, per una ragione oppure per un’altra, non riescono a tirare avanti con un tenore di vita dignitoso. Il vero peccato originale del Reddito di cittadinanza è invece un altro. Ci riferiamo all’aver fatto confusione fra le misure a sostegno delle fasce più deboli della popolazione e gli interventi destinati a trovare un posto per chi era in condizione di svolgere un’attività. Da questo punto di vista la riforma rappresenta un passo in avanti. Con due limiti. Il primo è che dice ancora troppo poco sulla seconda gamba del Mia, ovvero quella delle politiche attive. Prima di togliere il Reddito a oltre 440 mila «occupabili» bisognerebbe indicare anche in che modo il governo vuole accelerare il loro reinserimento nel mondo del lavoro, magari con interventi di formazione ad hoc. Senza questi interventi, ci troveremo sempre di fronte al paradosso di un mercato del lavoro dove abbiamo il record di giovani disoccupati, ma tante aziende che faticano a trovare i profili professionali necessari per portare avanti le proprie attività. Secondo limite, quello relativo ai minori che hanno terminato la scuola dell’obbligo e che, quindi, sarebbero di fatto esclusi da ogni sostegno. Anche in questo caso, accanto alla riforma del Reddito, bisognerebbe riflettere su come orientare questi ragazzi a frequentare istituti professionali o corsi in grado di dotarli di quelle competenze necessarie per trovare un’occupazione adeguata dopo aver terminato la scuola dell’obbligo. Bisogna evitare, insomma, che il passaggio alla nuova versione del Reddito si trasformi solo in operazione di maquillage, magari con qualche venatura ideologica, senza affrontare con decisione la grande sfida del nuovo mercato del lavoro. Senza questo, la Mia potrebbe essere solo l’ennesima riforma dimezzata.

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