IN AFGHANISTAN

Addio dopo vent'anni. La pace è la sfida

di Federico Guiglia

Generale, la guerra è finita, anche se non è detto che il nemico «è scappato, è vinto, è battuto». Non basta neanche la celebre canzone di De Gregori per spiegare lo storico annuncio del presidente statunitense, Joe Biden: dopo vent’anni di conflitto in Afghanistan, «la guerra più lunga per l’America», dal 1° maggio scatta il tutti a casa. E in quel «tutti» non sono compresi solo i militari degli Usa e della Nato, cioè dell’ampia coalizione di Paesi che, dopo la strage dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, intervenne a Kabul per cacciare il regime dei talebani e sradicare il terrorismo. L’addio riguarda anche gli 800 soldati italiani, di stanza soprattutto a Herat, con il compito di addestrare alla sicurezza e alla pace le istituzioni del posto sotto la guida della brigata Folgore. Un impegno che ha visto il sacrificio di 55 italiani caduti e l’impiego di decine di mezzi. Non un aiuto simbolico, né marginale, bensì costante e rilevante. Per gli afgani è arrivata l’ora di fare da sé. In barba alle incognite sul rischio di un ritiro senza la certezza della riconciliazione fra tutti in un nuovo Paese, la paradossale verità è che la pace si fa con i nemici. Ecco la scommessa dell’Occidente: credere che i talebani si ricrederanno, aiutandoli a far cessare ogni violenza con un sistema politico onnicomprensivo. Ma la partenza dei soldati non significa abbandonare quel che si è realizzato in campo sociale ed economico. Far vincere la pace sarà una sfida ben più importante. Il disimpegno militare deve lasciare il passo a un impegno civile e umanitario altrettanto serio.

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