PRESIDENZIALISMO

Ambizioni e difetti di una riforma

di Francesco Morosini

Dall’entrata in vigore della Costituzione italiana, primo gennaio 1948, sorsero dubbi sulla forma di Stato e di governo attuata. Nella stessa Assemblea Costituente il giurista Piero Calamandrei perorò la causa del presidenzialismo. La tesi del fondatore del Partito d’Azione era che la base politica di un presidente eletto ha più probabilità «di essere più stabile di quella illusoria che si può invece attendere dai sistemi proposti da chi dà la preferenza alla Repubblica parlamentare». La questione qui è capire se l’esperienza convalidi la tesi. È dubbio. Comunque, il tema è rilevante perché l’attuale presidente del Consiglio vede nel presidenzialismo una terapia ai mali della Repubblica. Molti giuristi e politologi hanno nel passato confortato questa visione. Tra questi Giuseppe Maranini, liberale classico, che - sempre guardando all’esperienza degli Usa - proponeva il presidente come «re elettivo» per superare la confusione di ruolo tra Parlamento (controllo) ed esecutivo (azione di governo). A ciò nulla seguì, perché a causa della presenza del Pci la Guerra fredda contro l’Urss impose per decenni la Democrazia cristiana come perno di governi senza alternativa. Il Parlamento così divenne una «camera di scambio politico» per compensare un’opposizione senza sbocchi, evitandone la radicalizzazione. L’apogeo è rappresentato dai regolamenti parlamentari del 1971 che tendevano, salvo il vincolo internazionale, a un «assemblearismo governante» sovrapposto e svuotante le istituzioni. Contro il cui malessere nacquero le Commissioni parlamentari per la riforma costituzionale (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema), tutte fallite. Lo stesso vale per i progetti di riforma costituzionale di Berlusconi e di Renzi. Nondimeno, il governo Meloni ha la volontà di riaprire il tema «riforme e presidenzialismo» anche se in modo costituzionalmente atipico (data la materia non-ordinaria) affidando al governo il compito di elaborare un progetto di legge da proporre all’Aula. Sul presidenzialismo vige la leggenda nera di essere una via all’autoritarismo, sebbene già Calamandrei ricordasse che il fascismo nacque dalla crisi di un sistema parlamentare. Inoltre la Germania nazista abolì la carica di capo dello Stato e in Urss spesso fu una carica collettiva di poco peso. Viceversa, il mito è che si tratti della via per un «governo forte». Contro molti studi. A esempio, il politologo Linz già a fine del ‘900 vedeva i limiti del presidenzialismo nella tendenza allo scontro tra esecutivo e Parlamento in quanto ciascuno legittimato elettoralmente separatamente. Tant’è che titolava un’opera curata con Valenzuela «Il fallimento del presidenzialismo». È proprio la separata elezione di presidente e Parlamento a minare e a renderlo fragile anche in legittimità. Il remake in Brasile dell’analogo assalto al Congresso degli Usa lo evidenzia. Forse è sbagliato inficiare un modello per una sua crisi. Ma è un segnale d’allarme. Confermato dal caso statunitense del «Presidente anatra zoppa», quando spesso in una delle due Camere del Congresso c’è una maggioranza elettorale opposta. Perfino tollerabile in condizioni normali. Ma in presenza di radicalizzazione politica il meccanismo va in panne. Nel presidenzialismo neppure un parlamento può uscire dalla crisi sfiduciando il presidente, mancando il nesso di fiducia tra i due poteri. Si va diretti al blocco. L’Italia è una repubblica parlamentare (il governo necessita della fiducia del Parlamento) con i suoi difetti. Tuttavia, prima di abbandonare il parlamentarismo si potrebbe ragionare sulla forza governante di due tipici modelli parlamentari: Regno Unito e Germania. Anche perché con pochi accorgimenti - la sfiducia costruttiva (nessun governo cade se prima in parlamento non è pronto un altro) e norme per rendere meno assemblearistica la sessione di bilancio - si potrebbe fare molto. Minimizzando le novità in Costituzione. E forse, a quel punto, si potrebbe fare chiarezza, una volta per tutte, anche sulla necessità o meno della riforma delle autonomie regionali, tanto cara alla Lega, che aleggia da molti anni e che altrimenti rimarrà in un limbo inconcludente in parte a causa proprio della sua contrapposizione al progresso della riforma presidenzialista, in uno sterile gioco delle parti tra le due anime della maggioranza di governo.

Suggerimenti