AL PASSO COI TEMPI

Ecco come cambia il mondo del lavoro

di Antonio Troise

Negli Stati Uniti hanno addirittura coniato un termine ad hoc, «Great Resignation», per descrivere quell’ondata di dimissioni di massa che ha investito le imprese dopo la prima ondata del Covid 19. Come se il virus avesse modificato in profondità il nostro modo di vivere e di lavorare, capovolgendo le priorità e sistemando, al primo posto, la qualità della vita e la propria soddisfazione professionale. Pure a costo di assumersi qualche rischio. Il vento americano, per la verità, comincia ad avvertirsi anche in Italia. Prendiamo, ad esempio, quello che sta succedendo nella parte nordorientale del Paese, tradizionale locomotiva italiana. Nel 2022 oltre 191 mila persone hanno deciso interrompere un contratto a tempo indeterminato, il livello più alto dal 2008, il 12% in più rispetto al 2021 e, addirittura, il 17% rispetto al 2019, prima della pandemia. Numeri impressionanti per un Paese che, a partire dal dopoguerra, è cresciuto nel mito del posto fisso, un unico lavoro per tutta la vita. Ora non è più così. Se consideriamo, ad esempio, i primi nove mesi dell'anno scorso, il numero delle dimissioni volontarie registrate in Italia ha superato la soglia di 1,6 milioni, con incremento del 22% rispetto all’anno precedente. Certo, non siamo in America, chi si dimette alle nostre latitudini lo fa sapendo di dover fare i conti con un tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 30% e almeno 2,3 milioni di persone senza lavoro. Come a dire, una sfida tutt'altro che banale.
Ma a leggere meglio i numeri, nel boom delle dimissioni, il Covid c'entra solo fino a un certo punto. In realtà, ad alimentare il fenomeno ci sono due aspetti da non sottovalutare. Da una parte l'arretratezza, sia per la qualità dell'impegno professionale sia per il livello degli stipendi, di ampi segmenti del nostro mercato del lavoro, ancora alla ricerca di un difficile equilibrio. Ma, dall'altra parte, ci sono anche considerazioni più soggettive, legate ai rapidi cambiamenti in atto nel nostro sistema produttivo, dove comincia a essere sempre più evidente il senso fra la dequalificazione e la perdita di motivazione rispetto a molte attività. Se a tutto questo aggiungiamo il dinamismo dell'economia post-Covid (anche al netto della guerra della Russia in Ucraina e della conseguente impennata dell'inflazione), che ha portato al record del numero di occupati anche nel nostro Paese, il quadro complessivo diventa ancora più chiaro. Non a caso, come dimostra il caso del ricco Settentrione, quasi un lavoratore su due trova un altro impiego dopo appena una settimana trascorsa in disoccupazione. E si tratta, per lo più, di persone qualificate e di classe di appartenenza medio-alta: in particolare, ingegneri, informatici, chimici, medici, architetti, geometri, ma anche periti e operai specializzati. Un piccolo esercito di italiani che sta cercando di cogliere le nuove opportunità del momento. Forse, a questo punto, sarebbe davvero il momento di aprire una riflessione sui cambiamenti in atto nel mercato del lavoro, cercando di capire, ad esempio, se strumenti, norme e contratti creati per un mondo produttivo che oggi non esiste più, siano ancora validi oppure non abbiano bisogno di una profonda revisione. La risposta, con questi numeri, è perfino scontata.

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