L’editoriale

Iran e Israele una partita a scacchi

di Stefano Polli

Stefano Polli Sembrava un attacco ma in realtà è stato un messaggio. La reazione israeliana al lancio di missili e droni da parte dell’Iran è stata contenuta e limitata. Pochi danni, che l’Iran minimizza ulteriormente, e un chiaro avviso che può essere riassunto così: «Possiamo colpirvi quando e dove vogliamo, stavolta siamo stati moderati. Finiamola qui». In realtà Tel Aviv non ha ammesso ufficialmente nulla ma fonti israeliane hanno fatto trapelare al Washington Post che l’attacco di venerdì è stato proprio un «segnale» all'Iran sulla capacità di arrivare ovunque all’interno del Paese. D’altronde, da parte occidentale c'è stata nei giorni scorsi una fortissima pressione affinché Israele non reagisse allo strike di Teheran o, almeno, fosse una reazione contenuta. Dal G7 di Capri, dal Consiglio Europeo di Bruxelles, dalla Casa Bianca è arrivata una richiesta univoca che questa volta - contrariamente a quello che sta facendo a Gaza - Israele ha ascoltato. Anche perché, dopo l’allontanamento tra Occidente e Israele per la conduzione della guerra nella Striscia, l’attacco iraniano ha avuto l’effetto di riavvicinare Usa ed Ue ad Israele. È quindi interesse di Tel Aviv non disperdere e non sprecare questa «riconciliazione» anche se un nuovo forte «richiamo» alla moderazione a Gaza è arrivato dal G7. Secondo Ian Bremmer, analista molto ascoltato e fondatore di Eurasia Group, l'attacco israeliano contro l'Iran sarebbe strato un passo verso l'allentamento dell'escalation. «Dovevano fare qualcosa ma l'azione è limitata rispetto all'attacco su Damasco che ha fatto precipitare la crisi». Ma anche la reazione di Teheran all'attacco israeliano a Damasco non aveva l'obiettivo di far male. È vero che per la prima volta l'Iran ha colpito Israele all'interno dei suoi confini e che usato circa 300 tra missili e droni. Ma è stato un attacco «telefonato» e atteso che le forze di difesa israeliane, anche per questo, hanno disinnescato con una certa facilità. Più che la genesi di una guerra sembrano scaramucce dove nessuno vuole affondare, una partita a scacchi sul filo del rasoio di un Medio Oriente sempre più infuocato. L'Iran non ha interesse a un conflitto diretto con Israele viste le differenze di capacità militari e tecnologiche. Preferisce affidarsi alle varie milizie che controlla in Iraq e Siria, ad Hamas, a Hezbollah e agli Houthi. Israele non vuole aprire un altro fronte dopo quelli di Gaza e del confine con il Libano e deve mantenere in piedi i precari equilibri che ha costruito con i Paesi arabi sunniti nella regione. Per tutti questi motivi, la diplomazia internazionale spera che gli scambi di colpi tra i due Paesi possano fermarsi, anche se il dibattito interno in Israele - con le prese di posizione dell'estrema destra che giudica «moscio» l'attacco della scorsa notte - continua a destare più di una preoccupazione. Ma, soprattutto, nessuno dimentica che tutto nasce sempre da Gaza dove la guerra non si è mai fermata. Il nodo da sciogliere è questo. E il G7, da Capri, lo ha ricordato a tutti.

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