CENTRODESTRA

L'attacco di Giorgia e il ruolo dell'Italia

di Federico Guiglia

In bilico il viaggio di Matteo Salvini a Mosca esattamente come il rapporto politico con Giorgia Meloni a Roma. Quelle “crepe” che la leader di Fratelli d’Italia invitava il capo della Lega a non aprire con iniziative di politica estera a danno dell’Occidente e dell’interesse nazionale, si stanno invece insinuando all’interno del centrodestra. Salvini ha preso molto male il consiglio della sua potenziale alleata - ma soprattutto antagonista - alle elezioni politiche della primavera 2023, associandola «al coro di sottofondo di Letta, Renzi, Calenda e degli altri intellettuali radical-chic che preferiscono le armi e il conflitto». Mentre lui, Salvini, per ottenere la pace sarebbe «disposto a tutto e a incontrare tutti». Non dunque una diversa opinione, ma un attacco è quello che il capo leghista considera di aver ricevuto dalla leader destinata a fare campagna elettorale con lui e con Silvio Berlusconi. Al di là dei toni e del manicheismo fra guerra e pace (dell’intero arco politico non c’è ovviamente leader che non desideri la fine del conflitto), la polemica Salvini/Meloni pone una questione seria e dirimente: chi sta con chi e quale mondo la politica nazionale voglia costruire dopo la prova terribile della guerra con tutte le sue conseguenze. Il gas per l’Italia e il pane per l’Africa, i rifugiati per l’Europa e i crimini contro l’umanità compiuti in Ucraina dalle truppe di Putin. Il ruolo dell’Italia e la sua scelta di campo, europea e atlantica, diventeranno un tema prioritario della campagna elettorale. Anche se in poche, fugacemente, subito silenziate e disperse, le donne afghane sono tornate a far sentire la loro protesta contro l'oblio al quale sono state di nuovo condannate, sfidando i Talebani a Kabul. Rivendicando «pane, lavoro e libertà» e «diritto ad andare a scuola», alcune decine di loro si sono radunate nella capitale afghana, molte con il velo sul volto imposto da quasi un mese, cantando e gridando slogan come «l'educazione è un mio diritto! Riaprite le scuole» e sono riuscite a marciare per alcune centinaia di metri, prima di venire disperse da uomini della sicurezza in abiti civili. «Volevamo leggere in pubblico una dichiarazione, ma i talebani non ce l'hanno consentito», ha detto Zholia, una delle manifestanti. «Hanno anche tolto i telefoni cellulari ad alcune ragazze e hanno anche impedito di scattare foto o girare filmati della protesta», per evitare che ne venissero diffuse le immagini su internet e sui social media, ha aggiunto. Il movimento di protesta delle donne afghane riemerge ogni tanto come le acque carsiche, ma in modo sempre più sporadico e ormai relegato al solo ambiente urbano, dove i 20 anni di libertà fra i due regimi dei Talebani hanno consentito la fioritura di una seppure limitata classe di donne indipendenti, quasi tutte giovani che non hanno conosciuto il buio della repressione fra il 1996 e il 2001. Ma anche le proteste ormai avvengono in condizioni disperate, perché tutte le partecipanti vengono fermate e identificate e alcune «spariscono» senza che siano state ufficialmente detenute. Le proteste politiche delle donne, sono semplicemente bandite dai nuovi padroni dell'Afghanistan che hanno riconquistato trionfalmente il potere con le armi lo scorso agosto. Dopo aver di fatto impedito alle donne di lavorare, in marzo, dopo mesi di incertezza, sono state richiuse le scuole femminili nel primo giorno di apertura, mandando tutte a casa in lacrime, in attesa di nuove direttive che garantissero la loro «sicurezza», in accordo con la legge islamica. Direttive mai emesse.

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