Come reagire

L’Occidente e una sfida di civiltà

di Flavio Pasotti

Madamina, il catalogo è questo. E colleziona l’esaltazione della Jihad palestinese, di Al Qaida, dell’Isis e ora del nuovo totem, i terroristi di Hamas, gli «eroi» del massacro di ebrei del 7 ottobre. In appendice leggiamo la discriminazione di genere verso gli esseri umani: se gli ebrei vanno eliminati, alle donne spetta ogni umiliazione. Il tutto immerso nei tradizionali capisaldi antioccidentali, in contemporanea esaltando Hitler e il nazismo, cioè dell’Occidente il male oscuro. Dobbiamo, per l’ennesima volta, ringraziare inquirenti e forze dell’ordine alle quali chiediamo sempre di più, qualche volta a ragione e molte no, ma che hanno una lista di priorità precisa, in testa alla quale sta il terrorismo. L’arresto dei due giovani pakistani a Brescia, e il coinvolgimento di un terzo, fa comprendere che si sia in grado di delimitare gli interventi di prevenzione senza sparare nel mucchio, cosa inutile e controproducente. Ciò detto, le riflessioni vanno fatte, partendo in primo luogo dagli equivoci di questi giorni, dove in Occidente la solidarietà al popolo palestinese passa dal dovere umanitario a un progetto politico molto contraddittorio rispetto agli ideali che ispirano la nostra vita quotidiana. Siano, tali ideali, la visione laica dello Stato o la condizioni della donna oppure una naturale aspirazione alla pace per chi ha visto i massacri del XX Secolo: il Medio Oriente è un mondo complesso, richiede conoscenza e grande elasticità di ragionamento, mentre in piazza dividiamo in bianco e nero, magari manifestando con chi, proprio come Hamas, ma magari anche senza essere terrorista islamico, a pagina 2 sostiene tutto ciò che negherebbe il nostro senso della civiltà e della convivenza. In secondo luogo, chi di noi ricorda gli anni ’70 sa quanto il terrorismo si mimetizzasse nel brodo della contestazione, ricorda «i compagni che sbagliano» come venivano definiti i brigatisti. Vedo molte similitudini, pur per ora e fortunatamente con minore gravità; per questo e in tempo, dobbiamo fare in modo che chi del nostro modo di vivere attraverso il lavoro ha conosciuto il senso delle regole, dei diritti e dei doveri nonché opportunità di emancipazione economica, comprenda sì la democrazia come strumento, ma la liberaldemocrazia come valore di difesa e di progresso dei diritti individuali, quanto di più lontano vi possa essere dall’integralismo religioso tradotto in politica. E se uno sforzo culturale non facile lo devono fare i nuovi italiani, noi dobbiamo rimetterci a riflettere, a capire che la storia ha dinamiche da studiare, che l’Occidente sa, come lo sa ogni essere umano, di non essere perfetto; sa fallire e sa emendare l’errore senza perdere le sue straordinarie conquiste anzi arricchendole, sapendo che in giro rinfacciano i nostri errori per legittimare i propri gravi difetti. Abbiamo una sfida potente davanti a noi: evitare guerre religiose, capire che le seconde generazioni hanno bisogno di particolare cura perché rischiano di essere culturalmente apolidi; capire che abbiamo finora avuto un modello di integrazione tramite il lavoro che ha assorbito con grande successo nuovi italiani; e capire che l’integrazione economica e quella sociale sono una condizione necessaria, ma non sufficiente, e che quella politica richiede uno sforzo di maturità anche nostro, in un momento in cui pure noi di maestri credibili della politica avremmo bisogno.

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