L’editoriale

La Nato e l’Europa alla prova

di Federico Guiglia

Quando il Patto Atlantico fu firmato, il 4 aprile 1949 a Washington, erano dodici i Paesi che si impegnavano nella mutua difesa in caso di aggressione da parte dell’Urss, l’unico nemico che all’epoca faceva paura. Sulle macerie della seconda guerra mondiale, il nucleo di una nuova e pacifica Europa, di cui anche l’Italia faceva parte, capiva l’importanza «deterrente» dell’alleanza con gli Stati Uniti. Sotto l’ombrello nordamericano, nessun regime comunista avrebbe osato attaccare con le sue truppe l’Europa libera e democratica. Pur con ricorrenti minacce e rischi di una terza catastrofe universale per fortuna scongiurata, quel modello del «tutti per uno, uno per tutti» ha procurato decenni di pace al mondo occidentale. Al punto che, con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Urss, l’Alleanza appariva sempre più un rimasuglio armato e sempre meno amato del tempo che fu. Settantacinque anni dopo, l’Atlantismo ricorda la sua fondazione e la sua esistenza che si è, al contrario delle rosee previsioni di inutilità e pensionamento, ampliata e rinvigorita. La guerra che Vladimir Putin ha scatenato due anni fa contro l'Ucraina, ha portato persino due Stati storicamente neutrali, la Svezia e la Finlandia, a rifugiarsi sotto il tetto della Nato. Che oggi conta su 32 Nazioni, 29 delle quali europee (più la Turchia). Bastano questi numeri per intuire che la retorica balenata da politici a turno su un "esercito europeo" distinto e distante dagli Stati Uniti, cioè dalla potenza militare principale, è, almeno oggi, irrealistica. L'Europa ha già i suoi soldati nella Nato. Semmai andrebbero molto meglio coordinati e molto più sostenuti all'insegna di una comune, ma finora fragile, volontà politica dell'Ue. Anche perché il rischio del distinto e distante oggi suona all'incontrario: potrebbero essere gli Stati Uniti a disimpegnarsi da una Nato necessariamente "europea". Specie se a novembre rivincerà le elezioni presidenziali Donald Trump, che rimprovera ai governi del vecchio continente di non versare quel 2% del Pil convenuto a beneficio della sicurezza collettiva. E mentre il Cremlino ammonisce che «Mosca e Nato sono ormai a livello di confronto diretto», ossia che aiutare l'Ucraina con armi e soldi significherebbe essere già sul campo di battaglia, Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, ribadisce che l'alleanza «non è parte del conflitto». E calcola in 100 miliardi in cinque anni il fondo per evitare la caduta di Kiev. La stessa cifra che è già stata spesa per consentirne la drammatica e coraggiosa resistenza. La Nato afferma, così, d'aver ritrovato una nuova ragion d'essere in un mondo che alla guerra fredda, cioè senza combattimenti, ma di grande tensione tra Usa e Urss, ha purtroppo sostituito la guerra vera di Putin in Ucraina (per non dire dei conflitti dimenticati o sotto i riflettori, come quello, tragico, in Medio Oriente). www.federicoguiglia.com;

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