L’editoriale

Medioriente sull’orlo del baratro

di Stefano POlli

Stefano POlli Il Medio Oriente è entrato in un territorio sconosciuto. La regione si trova in una fase politica e militare che non ha precedenti. Per la prima volta nella storia, l'Iran ha deciso di attaccare direttamente Israele colpendolo all’interno dei suoi confini. Non era mai successo dal 1979 ad oggi, anno della rivoluzione che rovesciò lo Scià e portò al potere Khomeini. In questi 45 anni le tensioni e gli scontri tra i due Paesi sono stati continui e aspri. Ma mai Teheran aveva osato superare quella linea rossa dell'attacco diretto. Dalle proxy war - le guerre per procura affidate ad Hamas, Hezbollah, Houthi e milizie controllate dai pasdaran in Iraq e Siria - gli ayatollah sono passati alla guerra diretta, all'attacco al cuore di Israele. E Israele ha annunciato di aver deciso di rispondere, nei modi e nei tempi che saranno decisi. L’escalation che nessuno voleva, a partire da Joe Biden, è plasticamente sotto gli occhi del mondo. Quella che era la paura principale dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre, cioè l’allargamento del conflitto, sta purtroppo diventando realtà. Il fatto che Israele sia stato in grado, in gran parte, di sventare l’attacco dei droni e dei missili balistici e cruise iraniani non toglie nulla alla gravità della situazione. Già in passato l'Iran aveva organizzato, soprattutto in risposta ad attacchi americani in Siria ed Iraq, rappresaglie di «facciata», incursioni che non avevano l'obiettivo concreto di creare danni al nemico ma semplicemente di salvare la faccia. Stavolta non può essere così anche se l'attacco era stato annunciato ed atteso e anche per questo quasi totalmente sventato.Ci sono già conseguenze chiare e dirette. Prima di tutto la fine dell'ambiguità iraniana. Teheran era dietro l'attacco del 7 ottobre con l'aiuto militare e politico dato per anni ad Hamas. Ma non si era mai esposto in maniera diretta. L'attacco dell'altra notte toglie ogni dubbio ancora possibile sul ruolo di Teheran. La seconda conseguenza è un inevitabile ricompattamento di Israele. Le feroci polemiche nei confronti di Netanyahu per la conduzione della guerra saranno probabilmente messe temporaneamente in un angolo. E lo stesso potrebbe avvenire per le critiche degli alleati americani ed europei. Il terzo punto è quello che riguarda i negoziati per una tregua e la liberazione degli ostaggi. Difficile in questo momento sperare in una soluzione veloce. Ma il punto centrale oggi è un altro e gira intorno a quella che sarà la reazione di Israele. L'Occidente e l'Europa si sono stretti intorno ad Israele come già era avvenuto il 7 ottobre. Ma, allo stesso tempo, hanno spiegato che è il momento di avere nervi saldi e sangue freddo. Biden ha detto chiaramente che gli Stati Uniti non appoggeranno Israele in un'eventuale rappresaglia contro l'Iran. Gli Usa temono che in Medio Oriente possa esplodere una guerra regionale che potrebbe ulteriormente allargarsi ad altri attori. Per questo Biden ha chiesto a Netanyahu moderazione e attenzione. A Washington vogliono costruire una forte e ferma risposta diplomatica all'Iran, isolando il Paese. Dopo quella in Ucraina e quella a Gaza, il mondo non può permettersi un'altra guerra che avrebbe confini più larghi e conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti. Non è una situazione facile per Israele: l'attacco dell'Iran dopo il 7 ottobre e questi mesi di guerra creano una situazione complicata per il Paese che si sente accerchiato, che è stanco delle continue provocazioni di Teheran e che, forse, comincia a pensare che è arrivato il momento di dare una lezione agli ayatollah. Tuttavia è, invece, il momento di ponderare e riflettere su quella che può essere la migliore risposta dopo questa nuova escalation. Nelle ultime settimane i vertici israeliani non hanno sempre ascoltato i consigli e le richieste della Casa Bianca. A Washington si augurano che questa volta vada in un altro modo, mentre il mondo guarda con preoccupazione il Medio Oriente che balla sull'orlo del burrone.

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