L’editoriale

Non è la corrida dei partiti

di Federico Guiglia

Ci sono almeno due modi, in politica, per prepararsi al voto europeo dell’8 (che è un sabato: prima volta che accade) e 9 giugno in Italia. Altrove, i partiti sono a caccia di persone competenti per farle contare a Strasburgo. Del resto, i grandi temi continentali, dalla guerra di Putin con l’invasione dell’Ucraina ai cambiamenti climatici, dalle politiche o non politiche sull’immigrazione alla sicurezza, all’economia, alle strategie sociali, ai diritti, è ben chiaro a tutti, negli altri ventisei Paesi che formano l’Unione, quale sia la posta in gioco. Se in origine il Parlamento europeo era privo di veri poteri e rappresentava un ricco «cimitero» per gli elefanti dei vari partiti, oggi quell’istituzione partecipa con modalità diverse al processo legislativo dell’Unione. Gode di prerogative in materia di bilancio e di controllo del potere esecutivo, cioè della Commissione e del Consiglio europeo. Può ricorrere alla Corte di Giustizia. Ma soprattutto svolge sempre e comunque un’attività politica di notevole rilievo sul piano internazionale e nazionale degli Stati membri. Quante volte un’iniziativa a Strasburgo, all’apparenza insulsa e lontana dall’Italia, ha invece avuto forti ricadute su Roma. 
Così si spiega la lunga e pur lenta marcia di un'istituzione oggi non più fantasma, dato che è già a partire dal 1979 che viene eletta dai cittadini europei. Tuttavia, quarantacinque anni dopo e nonostante il continuo rafforzamento del ruolo e dei poteri del Parlamento di Strasburgo, in Italia continua a prevalere un approccio minimale rispetto alla gran parte degli altri Stati. Intanto, il voto europeo da noi è visto alla stregua di un termometro elettorale: quanto piglieranno la maggioranza e le opposizioni? Con il verdetto in mano, i capi dei partiti potranno regolare i propri conti interni (segretari che salgono o che scendono a seconda dei casi) ed esterni: il rapporto e gli equilibri fra centrodestra e centrosinistra. Con queste premesse, è inevitabile che per le liste elettorali le forze politiche vadano alla ricerca di personaggi famosi o capaci di raccogliere consensi, anziché di personalità in grado di affrontare con conoscenza, profondità e rigore i grandi problemi in ballo. Rispunta il vecchio vizio, e vezzo, della politica: anteporre la fedeltà alla competenza del candidato e l'attrazione per le poltrone all'interesse nazionale. Posto che tutti gli altri vanno in Europa con l'intento di trarre ogni beneficio possibile per il proprio Paese. «Quando si farà l'Europa unita», prediceva Montanelli, «i francesi ci entreranno da francesi, i tedeschi da tedeschi e gli italiani da europei». Europei, oltretutto un po' distratti, se la campagna elettorale in Italia non si farà sugli eventi che stanno sconvolgendo il mondo -come i conflitti in pieno e drammatico corso-, anziché sulle contrapposizioni casalinghe. Il voto europeo è una grande opportunità per l'Italia. Purché non diventi l'ennesima e a Strasburgo ininfluente corrida tra partiti.

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