COSTITUZIONE

Quella riforma da sempre al palo

di Davide Rossi

Nel mentre in cui si stanno definendo le diverse alleanze, con la formazione di più polarizzazioni – accanto al centrodestra e al centrosinistra troveremo il raggruppamento di Renzi e Calenda, oltre al M5s –, prendono forma anche i programmi, sia di ciascun partito che di coalizione. Tra i temi trainanti troviamo le riforme costituzionali, questione che attanaglia l’agenda italiana almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso. La prima Bicamerale fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui poi prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. I lavori giunsero a un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la Bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997. Col nuovo Millennio per tre volte si è cercato di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il percorso previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una votazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il test a referendum confermativo. Sia nei tentativi del 2001, del 2006 e del 2016 si è giunti a interpellare il popolo, e l’unico esito positivo fu il primo, in cui si modificò l’assetto tra potere centrale ed enti locali. Questa riforma era sostenuta dal centrosinistra, mentre le due successive, più strutturate e incidenti il complesso dei poteri istituzionali, erano rispettivamente targate Berlusconi e Renzi. A oggi il centrodestra – dato per favorito con ampia maggioranza – pare aver trovato un equilibrio prospettando una riforma in senso contemporaneamente presidenzialista e autonomista, accontentando così le due anime forti della coalizione. È evidente che un tema così delicato come le regole del gioco civile deve trovare maggior sostegno possibile e sarà necessario il coinvolgimento di tutti i partiti, ma è altrettanto evidente che non si devono demonizzare modelli solo perché distanti da quello ora in vigore, temendo derive autoritarie. Il sistema presidenzialista evoca una sorta di «primo cittadino» d’Italia, riproponendo lo schema oggi in vigore per il sindaco dei Comuni o dei governatori delle Regioni. È evidente che si tratta di un salto quantico con l’esperienza attuale, che necessiterebbe di forti contropoteri e legittimazione reciproca dei partiti. Il nuovo Presidente non dovrebbe più nominare i giudici della Consulta né potrebbe presiedere l’organo di autogoverno dei magistrati. Ciò comporta una totale revisione degli assetti istituzionali e degli equilibri in essere, con un cambio di mentalità. Lapalissiana è la necessità di aggiornare un testo che ormai sente il peso degli anni, senza preconcetti e nella consapevolezza che non esiste il modello in astratto migliore, ma quello che meglio si addice alle circostante culturali, storiche ed economiche, frutto del compromesso e dell’accordo dei soggetti in causa. Non dimentichiamoci che anche l’elaborazione della nostra Carta fu accompagnata da discussioni e critiche, se solo ricordiamo lo sprezzante giudizio di un intellettuale come Gaetano Salvemini per cui «era una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità»; oppure il giudizio del giurista Carlo Artuto Jemolo, che la considerava «piena di espressioni che non hanno nulla di giuridico». Il vero nodo sta, a mio avviso, nella solidità di cui dovrà godere il prossimo Parlamento, con forze politiche che dovrebbero essere radicate nelle società, e non paradossalmente aggrappate allo Stato. Dove il Parlamento risultasse fragile e incapace di un costante dialogo con il cittadino, tutto sarebbe fallito in partenza.

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