«Brescia è blues.
L’America non è
lontana da qui»

Classe 1973, Enrico Sauda è approdato ai palchi americani col progetto Superdownhome dopo aver fatto parte di Granny Says e The Scotch I Superdownhome insieme a Fantastic NegritoHenry Sauda e Beppe Facchetti: il 7 live ai Giardini Estensi di Varese
Classe 1973, Enrico Sauda è approdato ai palchi americani col progetto Superdownhome dopo aver fatto parte di Granny Says e The Scotch I Superdownhome insieme a Fantastic NegritoHenry Sauda e Beppe Facchetti: il 7 live ai Giardini Estensi di Varese
Classe 1973, Enrico Sauda è approdato ai palchi americani col progetto Superdownhome dopo aver fatto parte di Granny Says e The Scotch I Superdownhome insieme a Fantastic NegritoHenry Sauda e Beppe Facchetti: il 7 live ai Giardini Estensi di Varese
Classe 1973, Enrico Sauda è approdato ai palchi americani col progetto Superdownhome dopo aver fatto parte di Granny Says e The Scotch I Superdownhome insieme a Fantastic NegritoHenry Sauda e Beppe Facchetti: il 7 live ai Giardini Estensi di Varese

Chiudi gli occhi e sei a Memphis. Drizzi le orecchie e senti caldo. È il blues, bellezza. Ti può portare ovunque nel mondo. From Brescia to... Un po’ dove vuoi: dove ti porta il cuore, dove puoi alzare il volume. Enrico Sauda detto Henry, metà di quella rovente magìa chiamata Superdownhome (il duo formato con Beppe Facchetti), fa fumare la sua chitarra come accendesse una scatola di sigari, Cigar box o diddley bow che sia, darà le fiamme al suo strumento a corde e voce a quella spinta che si può chiamare in tanti modi - c’è chi ha sintetizzato il concetto in «groove» - ma le definizioni dicono poco di un istinto primordiale. Il blues è anima e dolore, passione e sofferenza. È anche, per Sauda, un’eredità da onorare: suo zio Mario, batterista dei Pipers (non solo ma anche), l’ha introdotto in un mondo che è sempre magìa, pur tra mille difficoltà. «È mancato a gennaio, due giorni prima che partissimo per andare a suonare negli States io e Beppe», ricorda il nipote d’arte, che gli ha reso pubblicamente omaggio via social: «Fai vibrare tutti i tamburi! Allinea tutti i pianeti col tuo tempo!». Il dispiacere non se ne va, con una consolazione: «Al funerale molte persone hanno voluto salutarlo. Tanti gli hanno voluto bene. Io gli sono anche grato».

La musica nel Dna?
Sicuramente. Parte tutto dal nonno paterno, Gianni Sauda, che suonava il mandolino. In sua compagnia con la chitarra tentavo di fare il contrabbasso. I primi pattern di basso alla buona.

Quanti anni aveva?
Quasi 9. In casa respiravo aria di reverenza nei confronti della canzone, da mio nonno che metteva i vinili alle feste con i figli a mio zio, che fino quando è stato cosciente parlava di Elvis Presley. Un amore viscerale per il rock and roll.

Lei cosa ascoltava?
Ero ragazzino negli anni ’80. Ascoltavo i Duran Duran, pop che andrebbe rivalutato. E un po’ di gruppi italiani. Il mio percorso musicale è diverso da quello di Beppe: lui ha un passato anche grunge, io ho cominciato diciannovenne con un trio insieme a mio zio Mario per un tributo a Stevie Ray Vaughan, che mi ha riportato alle radici del rock. Poi sono arrivati i Triple Trouble. Mio zio, che mi aveva iniziato, a quel punto mi ha lasciato andare: «Devi fare la tua strada».

La strada del blues.
Ho rilevato il negozio di famiglia, l’Ottica Sauda in via Chiusure, l’ho portato avanti ma non ho mai smesso di suonare.

Da Henry & The Blue Train a Granny Says, progetto di musica d’autore e band che ha accompagnato a lungo Riccardo Maffoni.
La prima vera esperienza professionale. Con Arki Buelli ai tamburi, Simone Boffa alla chitarra, Paolo Biasi, Massimo Saviola, Marco Grossi e Giorgio Marcelli ad avvicendarsi al basso. Abbiamo aperto a musicisti del calibro di John Mayall, Robben Ford, Rudy Rotta e Nine Below Zero. Dopo i Granny Says ho formato prima un trio prog con Gioele Serena e Diego Garofalo, quindi sono tornato al rock con gli Scotch: Nico Bignami, Libero Scalvini e poi Mattia Bertin.

Fino all’incontro con Beppe Facchetti.
L’avevo conosciuto come cliente in negozio, ma non ci eravamo mai frequentati. Sapevo che insegnava inglese e quando ho avuto bisogno di sistemare i testi degli Scotch gli ho chiesto aiuto. Io avevo la mia band, lui ne aveva sempre in doppia cifra: non pensavo a una collaborazione. Una sera a Sirmione, a un suo concerto con Matteo Mantovani, li raggiungo a cena e c’è anche Marco Franzoni. L’organizzatore chiede se fra noi c’è un duo acustico: gli serve per un concerto sul lago di Garda. Beppe mi indica e dice «noi due». Resto spiazzato ma sto al gioco e annuisco. Passa una settimana e tutto tace. Allora lo chiamo: «Davvero ho detto così?», mi fa. Dopodiché comincia tutto.

Quattro anni fa.
Non avevo mai fatto niente di acustico. Cajon e dobro, suoniamo qualcosa di irlandese ma non sono convinto, non è la mia storia. A quel punto s’impone la scelta: o formiamo il solito trio elettrico, come ce ne sono tanti, o proviamo qualcos’altro. Beppe mi mostra video di Seasick Steve, scopro un blues rurale fatto con strumenti mai visti. Ci sto. E ci lanciamo nell’avventura Superdownhome, che continua a darci soddisfazioni.

Blues ruvido, alcoolico, essenziale, torrido, tra folk e punk, fra Jon Spencer e White Stripes, sempre e comunque roots.
Votato alle contaminazioni, di certo.

Avete bruciato le tappe. Dalla cover del classico «Shake Your Money Maker» di Elmore James al primo ep co-prodotto con Marco Franzoni al Bluefemme Stereorec. Il primo album griffato Slang e Warner, «Twenty-four days». L’amicizia con Popa Chubby che diventa produttore oltre a suonare in studio, le date con Fantastic Negrito, il featuring di Charlie Musselwhite con la sua inconfondibile armonica in due brani...
Abbiamo tagliato traguardi che nemmeno sognavamo. Arrivando a suonare ovunque.

Dall’Italia alla Francia, dalla Svizzera a Memphis, dal Pistoia Blues Festival all’International Blues Challenge in America.
E dopo il terribile lockdown siamo ripartiti. Abbiamo pubblicato «Blues case scenario», un best-of per Warner Italia, collaborando con Nine Below Zero per il nuovo singolo «Homework». Con tanto di video «itinerante» a bordo di una Chevrolet custom.

Per i Superdownhome Facchetti ha rinunciato al ruolo di batterista di Omar Pedrini in tour: è stato il segno che facevate sul serio in tutti i sensi?
Quella scelta al momento mi ha anche un po’ spaventato, sono sincero. Bella responsabilità. Ma aveva visto lungo, Beppe. E così il nostro manager Giancarlo Trenti. Prima della pandemia abbiamo suonato tanto, fra novembre e febbraio siamo stati via sette settimane in tour. Negli States abbiamo riscontrato un’attenzione incredibile. Un’esperienza pazzesca: siamo stati chiamati e ingaggiati a New Orleans in un grande festival da un promoter nostro fan che ci voleva fortemente e ha fatto carte false per averci. Forse è piaciuta la nostra freschezza. Siamo aperti: sta per uscire un remix di Mekis di un nostro brano, ci piace cercare sempre nuove vie.

In Italia è più difficile?
Ci scontriamo con una realtà di parrocchie chiuse, spesso ci sentiamo dire che il nostro non è blues canonico. Ma meno male che ci sono artisti coraggiosi come Gary Clark Junior e Fantastic Negrito, che portano avanti il genere al passo coi tempi. Qui si fanno le conferenze, si parla tanto di aperture ma se metti un effetto sull’assolo sei un sacrilego.

Da Cek Franceschetti a Sergio Benzoni, giusto per citare un paio di veterani: Brescia è terra di blues?
Sì. Del resto il Nave Blues, creatura di Trenti, è stato il terzo festival di genere a nascere in Italia. Serve un ricambio generazionale, fortunatamente i giovani musicisti appassionati non mancano e manterranno vivo, contemporaneo, questo nostro linguaggio, favorendo la formazione di un pubblico nuovo. Noi ci siamo e ci giocheremo le nostre carte.

Qual è il pezzo dei Superdownhome che ama di più? 
«Twenty-four days» mi emoziona sempre. Lo suoniamo a metà scaletta, o verso la fine, mentre all’inizio era un brano d’ingresso. In qualsiasi punto del concerto funziona. E si evolve nel tempo. Nicola Vettori, un nostro amico musicista che è venuto a vederci di recente, è rimasto colpito dall’ultima versione.

Quali chitarristi ammira di più, oggi?
Marcus King, per lo stile personale. Riesce a rendere fresco un fraseggio classico. Mi piace tanto anche Jack White.

Il suo sogno?
Portare un po’ d’America a Brescia. È anche questo il senso della nostra recente collaborazione insieme a Cek Franceschetti e Andrea Bresciani con Alle B. Goode e i Bonebreakers, per la loro «City Blues». La nostra esigenza è importare questa tradizione culturale americana qui, nella nostra città. Brescia può essere blues. Già un po’ lo è.

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