In sala

«Il grande Lebowski» e i 25 anni del Drugo

di Luca Canini
letterboxd.com/RivBea79
Il protagonista Jeff Bridges nei panni di Jeffrey Lebowski: 25 anni fa il debutto in sala
Il protagonista Jeff Bridges nei panni di Jeffrey Lebowski: 25 anni fa il debutto in sala
Il protagonista Jeff Bridges nei panni di Jeffrey Lebowski: 25 anni fa il debutto in sala
Il protagonista Jeff Bridges nei panni di Jeffrey Lebowski: 25 anni fa il debutto in sala

È tornato in sala da qualche giorno, di nuovo in formato grande schermo per celebrare i 25 anni dall’uscita. Poco importa che all’epoca, anno 1998, fossero i primi di maggio e non l’inizio di novembre: ogni scusa è buona per «Il grande Lebowski». Che per chi si è sentito giovane in quella terra di nessuno che sono stati gli anni Novanta, iniziati con il tintinnare delle manette di Tangentopoli e passati di moda tra le manganellate di Genova, non è un film qualunque. Generazionale è dire poco: un’opera manifesto, una specie di autobiografia collettiva, un’assoluzione con formula piena dopo il lungo decennio delle illusioni, dello scazzo rancoroso, della definitiva risacca morale, della dolorosa presa di coscienza che no, archiviata l’indecorosa fine della Repubblica dei partiti, un altro mondo non era possibile (da Craxi a Berlusconi senza passare dal via). Chi c’era e ha visto sicuramente ricorda l’impatto del Drugo (The Dude nella versione originale) sulle coscienze dei ventenni di allora: una rivelazione inattesa, un immediato riconoscersi in una commedia surreale, quella dei fratelli Coen, che all’improvviso sembrava parlare all’intera platea degli ex ragazzini.

L’eroe dei nostri tempi
Anche se il fallito Jeffrey Lebowski, campione di tutti i perdenti, una vita in accappatoio e ciabatte, gli anni migliori li ha persi per strada molto prima della caduta del Muro. È un reduce, il Drugo. Figlio dei fiori fuori tempo massimo che ha sbattuto il muso contro i cieli di piombo del decennio dei Bullitt, degli Shaft (a proposito, addio Richard Roundtree: salutaci Isaac Hayes) e dei Dirty Harry Callaghan. «La rivoluzione è finita, gli sbandati hanno perso!», gli urla in faccia quell’altro Lebowski, quello con i soldi, poco prima che gli sparisca da sotto i piedi un insostituibile tappeto (destinato a dare davvero un tono all’ambiente e a mettere in moto il plot). Il resto è la cronaca di una ferocissima apologia dell’assurdo. Con una serie talmente lunga di sequenze memorabili (cult, come si ama dire oggi), di personaggi indimenticabili, che nemmeno si sa da che parte cominciare a citarli: Jesus alias John Turturro, Walter Sobchak al secolo John Goodman, la Maude di Julianne Moore, il Brandt di Philip Seymour Hoffman, il pornografo Jackie Treehorn affidato genialmente a Ben Gazzara, l’idiot savant Donny interpretato da Steve Buscemi. E poi lo sceriffo della contea di Malibu, il padrone di casa Marty, la combriccola dei nichilisti con le loro ambizioni kraut (la migliore fake band di sempre: gli Autobahn, i cugini coglioni dei Kraftwerk). Di tutto e di più, tra cinismo corrosivo, comicità nonsense e una colonna sonora clamorosa (da «The Man in Me» di Bob Dylan a «Lookin’ Out My Back Door» e «Run Through the Jungle» dei Creedence, da «Hotel California» a «Dead Flowers», nelle versioni cover dei Gipsy Kings e di Townes Van Zandt); ma soprattutto quel «prendila come viene» che sembra l’unica risposta possibile, oltre che plausibile, alla constatazione che niente ha più un significato, che tutto vale perché nulla davvero conta.

I figli di Lebowski
Come potevamo non sentirci chiamati in causa? Noi, gli ultimi a crescere senza internet e i primi tagliati fuori dall’era dei nativi digitali. Obsoleti ancora prima di entrare in commercio. Il Drugo era e resta il nostro principe a cavallo, Jeff Bridges si rivolgeva a noi, ci diceva che andava bene anche così, che potevamo deporre le armi (che in realtà non avevamo mai impugnato) e farci serenamente da parte. O quasi. Perché alla fine del film, quando Donny paga per tutti, sullo sfondo già si intravedono i fumogeni del G8 e poco oltre i due aerei che si schiantano contro le Torri Gemelle. L’11 settembre e l’inizio della vera fine. I fratelli Coen ci avevano avvisati, ma noi eravamo troppo occupati a riderci addosso.

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