La recensione

«Kafka a Teheran», la stupidità del potere

di Fausto Bona

Grande, grande ammirazione per Ali Asgari e Alireza Kathami, i due cineasti iraniani che sono riusciti a girare il film a episodi «Kafka a Teheran», restandosene nella capitale del loro Paese, guardati con sospetto, osteggiati, quando non fermati dalla polizia, invece di emigrare in Occidente o in America dove sarebbero stati coccolati dai media e dall’opinione pubblica. Resistere, non rinunciare a parlare, a fare cinema, ad argomentare con l’astuzia della ragione che riesce ad aggirare e ridicolizzare divieti e censure: questo è coraggio. «Kafka a Teheran» mette in scena con grande vigore e nitore le gesta di una specie di mostro ordinario e quotidiano, nato dall’unione aberrante tra la mentalità burocratica e la presenza nefasta e arrogante della religione in ogni ambito della vita. La messa in scena è di grande essenzialità: un interno, un problema da risolvere, una scrivania, e dietro la scrivania una voce perché non si può mostrare il volto del potere senza renderlo automaticamente ridicolo. Come avviene nell’episodio in cui i due registi sono riusciti a tematizzare la loro situazione mostrando cioè con quale surreale stupidità un funzionario obblighi un cineasta a strappare le pagine sgradite del copione. Ogni episodio ha il nome di una persona: un padre che vorrebbe registrare all’anagrafe suo figlio con il nome di David; una bambina che deve bardarsi con tutta una serie di vestiti per la cerimonia del dovere; una giovane studentessa accusata dalla preside di essere stata accompagnata a scuola da un ragazzo in moto. Si finisce con un chihuahua, metafora perfetta della meschinità e dell’ottusità spiccia del servilismo.

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