IN STREAMING

«Pistol», la rivoluzione punk non può lasciare indifferenti

di Gian Paolo Laffranchi
Steve Jones, Sid Vicious (subentrato a Glenn Matlock), Johnny Rotten e Paul Cook: i Sex Pistols nel 1977
Steve Jones, Sid Vicious (subentrato a Glenn Matlock), Johnny Rotten e Paul Cook: i Sex Pistols nel 1977
Steve Jones, Sid Vicious (subentrato a Glenn Matlock), Johnny Rotten e Paul Cook: i Sex Pistols nel 1977
Steve Jones, Sid Vicious (subentrato a Glenn Matlock), Johnny Rotten e Paul Cook: i Sex Pistols nel 1977

La cartolina che chiude i conti con il passato e lancia i titoli di coda non poteva che essere lei. L’ultimo sguardo, il suo.
God Save The Queen
: un omaggio con sberleffo che pare un presagio, visto che «Pistol» è stata girata prima che la regina s’accomiatasse da questo mondo. Prima, di sicuro; quando, è difficile a dirsi se ci si abbandona alla bolla creata da Danny Boyle per dare un palco fuori dal tempo ai Sex Pistols. Chi altro, se non mr. Trainspotting, poteva prendersi in carico una storia tanto breve quanto intensa, già consegnata al mito, e farle onore cristallizzandola in una serie che è proprio come quell’esplosione punk, magmatica e magnetica, intrigante e controversa insieme? Nei 6 episodi di «Pistol» (su Disney+, abbinamento già notevole di suo) c’è tutto. E il contrario di tutto. Difficile, del resto, dare ordine a ciò che è disordine per antonomasia (se non lo fosse non sarebbe punk, e non saremmo qui a scriverne).

La fotografia della serie ideata per l’americana FX da Craig Pearce - la scelta più azzeccata, così incerta e nebbiosa, meravigliosamente inglese - colora l’umore mutevole di personaggi inafferrabili. Scappati di casa con mille problemi, che faticano ad andare d’accordo innanzitutto con loro stessi. Ma anche anime fragili d’artisti, votate alla creatività come all’autodistruzione. Il punto più debole sono gli spiegoni affibbiati di volta in volta ai protagonisti, chiamati a fungere da bigini per una vicenda che copre di fatto 4 anni in croce, ma abbonda di svolte, ribaltoni, colpi di scena. Cresce di episodio in episodio, «Pistol». Alza il ritmo e appassiona: non è poco, non lo è mai. La musica aiuta, anche se ha uno spazio relativo. Le scene troppo romanzate non mancano (vedi quella in cui Sid diventa Vicious rubando il nomignolo al suo capriccioso criceto che l’ha morso) e il punto di vista è uno solo, quello del chitarrista Steve Jones: logico, se si pensa che la serie nasce prendendo spunto dalla sua autobiografia. Altrettanto scontato che l’altra figura portante della band, il frontman Johnny Lydon detto Rotten, abbia disapprovato l’intera operazione definendola «una fantasia borghese» e cercando di bloccarla (invano). Fa sorridere, ed è molto punk, il fatto che in «Pistol» chi ne esce meglio sia proprio Rotten, reso mirabilmente da Anson Boon. Bastian contrario totale, irascibile come i suoi soci ma personalità molto più forte, con una vena poetica solo in parte rispecchiata dai testi dell’album - unico e iconico - pubblicato dai quattro. I quattro, e la serie lo dice chiaramente, erano Jones e Rotten con il batterista Paul Cook e il bassista Glenn Matlock, ghettizzato ed escluso in favore di Vicious in quanto nerd, educato e fan dei Beatles, ma unico vero musicista e non a caso autore principale del gruppo. L’ingresso di Sid, voluto dall’amico Rotten e agevolato dal manager-più-cinico-di-sempre Malcolm McLaren, era l’immagine perfetta per stampare magliette ma anche l’infezione letale per un organismo già precario, che provò a espellere il veleno rispedendo in America la sua fidanzata-pusher Nancy. Non c’è finale da spoilerare: la tragedia era scritta, l’autolesionismo conclamato. I Sex Pistols sarebbero arrivati in testa alla classifica comunque, così come Vicious tale sarebbe rimasto: «Pistol» lo dice con la stessa schiettezza con cui disegna personaggi femminili memorabili. Poco importa se Pamela «Jordan» Rooke avesse davvero un ruolo tanto influente nel negozio di Malcolm e Vivienne Westwood, né che Chrissie Hynde (la futura leader dei Pretenders, interpretata dalla conturbante Sydney Chandler) fosse una presenza costante nella vita di Jones e della band proprio come lo è qui: i loro caratteri sono così ben definiti da rendere giustizia a ciò che è stato veramente il punk. Una rivoluzione che non faceva prigionieri.

Suggerimenti