In sala

«Killers of the Flower Moon»: Scorsese ai confini del western

di Luca Canini
Il nuovo film del regista di «Taxi Driver»: tra i nativi americani della contea di Osage per una spietata analisi sulle dinamiche del male

Al cinema, quello con le poltrone e il grande schermo, non lo si vedeva da sette anni abbondanti. Dai primi del 2017, ovvero dall’uscita di «Silence» (forse il film meno citato e ricordato del signor Taxi Driver). Poi, a fine 2019, la scelta di affidarsi a Netflix per «The Irishman», distribuito in esclusiva dal gigante dello streaming. Un film-testamento, un perfetto finale di carriera. Per fortuna solo nelle intenzioni. Perché Martin Scorsese stava già lavorando alla sua prossima pellicola: «Killers of the Flower Moon», tratto dal best seller di David Grann - «Gli assassini della terra rossa», edito in Italia da Corbaccio - e arrivato in sala anche da noi in questi giorni.

Oklahoma, anni Venti
Siamo a Fairfax, la contea degli Osage, i nativi più ricchi d’America grazie al petrolio, il combustibile della seconda rivoluzione industriale. Ma i soldi, si sa, attirano i bianchi. E con i bianchi arriva la violenza. Sotto forma di un’interminabile catena di morti sospette. Trenta, quaranta persone uccise. Forse di più. Sulle quali nessuno indaga e delle quali a nessuno sembra importare. Che un indiano sia vivo o morto fa poca differenza. A maggior ragione da quando il potere e la ricchezza si vanno concentrando nelle mani di William King Hale (Robert De Niro), zio di Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) e amico di lunga data della famiglia Osage nella quale è cresciuta Mollie (Lily Gladstone), sposata con Ernest e destinata a ereditare una piccola fortuna in dollari e pascoli da oro nero. Sono loro gli ingranaggi che muovono i meccanismi di un western epico, morboso, crepuscolare, un crime alla fine dei tempi (e ai confini del mondo) che ci consegna la morale di sempre: non c’è giustizia, non c’è redenzione, non c’è salvezza di fronte all’odio e all’ingordigia, non c’è scampo per chi non ha la forza di non essere debole. Il male contro il bene (e non il bene contro il male). La violenza e la sopraffazione come pilastri dell’America bianca.

Non a caso «Killers of the Flower Moon» sembra un remake spostato indietro nel tempo di «Quei bravi ragazzi», con Robert De Niro-William Hale che è la copia precisa perfetta di Robert De Niro-Jimmy Conway, il cattivo che ti fa un buco in testa dieci minuti dopo averti offerto da bere; e con Leonardo DiCaprio-Ernest Burkhart nella parte che fu di Ray Liotta-Henry Hill, il difetto nel sistema che messo all’angolo dalle circostanze finisce per cedere (più per codardia che per contrizione). Scorsese elevato alla Scorsese. In un racconto fiume da 206 minuti che per le prime due ore non si preoccupa di non andare per le lunghe. «Killers of the Flower Moon» è decisamente prolisso, anche se mai verboso, solenne nella sua andatura da carovana in viaggio verso la frontiera. Ma poi c’è l’ultima ora e mezza. Che rimette a posto tutto quello che prima sembrava ridondante, sforbiciabile. Scorsese ci porta a spasso senza fretta per le strade di Fairfax, ci presenta uno a uno i personaggi e le loro storie; poi, quando ci ha fatti entrare nella comunità, nelle famiglie, fa esplodere il film in un crescendo finale travolgente, con in coda un guizzo di meta-cinema (o qualcosa del genere) che chiama in causa lo stesso regista nelle vesti di voce della coscienza.

Il film dell’anno?
Il resto lo fanno i tre protagonisti. De Niro, DiCaprio e una Lily Gladstone da premio Oscar. È Mollie la pietra angolare di «Killers of the Flower Moon», il vero perché. Madre comprensiva e dea paziente, porta il peso della croce di un intero popolo, pronta a redimere con un abbraccio i peccati del mondo. Radiosa e nobile, senza mai perdere la dignità anche di fronte alla rabbia più oscura, affronta i lutti e la morte con il sorriso misterioso di una Monna Lisa delle praterie, con la forza antica e inscalfibile che viene dal cielo e dalla terra. Una lezione di amore, di comprensione, di purezza, di umanità in un contesto di feroce degradazione.

La verità oltre la morale in un film che è anche un omaggio, come sempre in Scorsese, allo spirito guida dei grandi padri: il John Ford più amaro e disilluso di «Sentieri selvaggi» e «Il grande sentiero», la febbre dell’oro nero già raccontata da Douglas Sirk in «Come le foglie al vento» e da George Stevens nell’altrettanto epico «Il gigante» (DiCaprio, oltre al ghigno alla don Vito Corleone, ha più di un legame con il Jett Rink di James Dean), la brulicante frontiera di «C’era una volta il West», Nicholas Ray, Anthony Mann e chissà che altro ancora. Riempitevi gli occhi. E riempitevi le orecchie con la colonna sonora curata dallo scomparso Robbie Robertson (dedica d’obbligo nei titoli di coda) e nella quale spicca «Dark Was the Night, Cold Was the Ground» di Blind Willie Johnson, che incornicia alla perfezione una delle sequenze più evocative, quella dell’incendio (altro rimando: il rogo dei campi infestati dalle cavallette in «Days of Heaven» di Terrence Malick, anche se le fiamme di Malick bruciavano per liberarci dal male, mentre quelle di Scorsese sembrano salire dalla bocca dell’inferno). Il film dell’anno.

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