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«The Bear», la ricetta perfetta per una serie da leccarsi i baffi

di Luca Canini
luca.canini@bresciaoggi.it
Otto episodi ad assetto variabile che raccontano la cucina da incubo di Carmy Berzatto e della più improbabile delle brigate: umanità, calore e una straordinaria colonna sonora

Nell’era delle mega produzioni, dei budget milionari stanziati dai giganti dello streaming per inseguire la moda del momento, dei prequel e dei sequel a nastro, delle vagonate di dollari bruciate per fiaschi clamorosi o polpettoni inguardabili (il riferimento a «Gli anelli del potere» è tutt’altro che casuale), fa piacere che ci sia ancora qualcuno che crede nella forza delle idee e del cinema. «The Bear», sbarcata in Italia grazie a Disney+, prodotta da FX, trasmessa dall’altra parte dell’Atlantico da Hulu e ideata da Christopher Storer, è l’esempio di come si possa lavorare con intelligenza, tatto e mestiere sul concetto di serie; sfruttando a pieno i vantaggi che il formato garantisce senza scadere nell’eccesso di plot o nei facili giochetti da intrattenitore usa e getta.

Siamo a Chicago, nella cucina da incubo della tavola calda (o qualcosa di molto simile) «The Beef of Chicagoland». A pentole e fornelli, ex chef in carriera tornato a casa dopo il suicidio del fratello Mikey (un colpo di pistola alla tempia nel cuore di tenebra di una notte più buia del solito), il giovane Carmen - Carmy - Berzatto (che ha la voce e il volto di Jeremy Allen White, passato anche dalle parti di «Shameless»); tanto problematico quanto talentuoso e con una missione precisa: rimettere in piedi l’attività di famiglia dopo gli anni difficili in cui le cose non sono andate esattamente come si sperava. Un dovere morale, prima di tutto; una sorta di debito da saldare con le radici rinnegate, con la città dalla quale ha spiccato il volo (per rabbia più che per passione), con il fratello di cui sopra, tossicodipendente dal cuore d’oro che attorno a lui ha raccolto una specie di famiglia.

I dipendenti del «Chicagoland», un presepe coloratissimo di camerieri, cuochi e tuttofare nel quale spiccano: la deliziosa Sydney, braccio destro di Carmen che da sempre sogna di lavorare accanto a un grande chef; il cugino Richie, disperato e incasinatissimo, protettivo e violento, gangster mancato e padre fallito; l’aspirante pasticcere Marcus, alla perenne ricerca della ricetta per i donut perfetti; la burbera Tina, depositaria dei segreti del locale e veterana della rumorosissima squadra. Tutti insieme sgangheratamente in otto episodi ad assetto variabile (da un minimo di 21 a un massimo di 48 minuti per la puntata finale) che traboccano di umanità.

Sono i personaggi il punto di forza di «The Bear»: tratteggiati con sensibilità e partecipazione, coccolati anche nei momenti in cui non devono rubare la scena, messi a nudo nelle loro tante debolezze, nei loro difetti, nella loro sofferenza. Carmy il taciturno, l’irrisolto, incapace di fare i conti con il gesto estremo del fratello, geniale e ferito, pericolosamente attratto dalla bottiglia; Sydney l’insicura, l’incostante, la sognatrice; Richie la mina vagante, aggrappato alla vita come ci si aggrappa a un salvagente nel mezzo dell’oceano in tempesta. Si fa presto ad affezionarsi alle loro storie, alle loro vite; mentre sullo sfondo sfila una Chicago vera, bellissima e crudele. Perché «The Bear» è anche un appassionato omaggio alla città del vento, incorniciata da una colonna sonora a chilometri zero che non sbaglia un colpo: i Wilco di «Impossible Germany» e «Via Chicago», «Sisyphus» di Andrew Bird, una delle tanti versioni di «Chicago» di Sufjan Stevens; ma anche «Let Down» di Radiohead, «One Fine Day» di David Byrne e Brian Eno, «Oh My Heart» dei Rem, «In Too Deep» dei Genesis, «Animal» dei Pearl Jam, «Saint Dominic’s Preview» di Van Morrison. Musica per gli occhi, musica per le orecchie. A scandire la ripida discesa (l’unico difetto di «The Bear» è che dura troppo poco) verso una chiusura magica, un happy ending che sconfina nel favolistico. La vita picchia duro, è vero, ma quando ci si mette riesce a essere bellissima.

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