L'INTERVISTA

Elia Moutamid alla conquista dell'America con «Maka»

di Gian Paolo Laffranchi
Terzo lungometraggio del regista rovatese che racconta la storia di Geneviève Makaping, la prima telegiornalista nera d'Italia
Moutamid tra Geneviève Makaping e Simone Brioni
Moutamid tra Geneviève Makaping e Simone Brioni
Moutamid tra Geneviève Makaping e Simone Brioni
Moutamid tra Geneviève Makaping e Simone Brioni

Alla conquista dell’America, atto primo e secondo: «Un mese fra ottobre e novembre, un altro tra febbraio e marzo». Così Elia Moutamid ha varcato i confini con il terzo lungometraggio: «Maka», terza tappa (dopo «Talien» e «Kufid») di una carriera già forte di riconoscimenti da regista (oltre che da attore). Passato in scioltezza il rodaggio di rassegne in Svezia e in Grecia, il suo ultimo film prodotto da 5e6 srl e Stony Brook University è stato scritto da Simone Brioni, bresciano come Moutamid ma ormai statunitense adottivo (vive a Long Island), che alla luce delle sue pellicole precedenti si è rivolto a Elia per raccontare la storia di Geneviève Makaping traendo spunto da un libro autobiografico («Traiettorie di sguardi»). Il coraggio e la forza della prima telegiornalista nera d’Italia, come Maka si è fatta conoscere in Calabria.

Com’è andato il tour di presentazione?

Magnificamente. Ringrazio chi ha concepito quest’operazione che ha consentito di mostrare in lungo e in largo in America un film collettivo. Simone Brioni, bresciano, mi ha fatto un po’ anche da manager. Se ho stabilito contatti interessanti, importanti, negli Stati Uniti, lo devo a lui. Mai avrei pensato di andare lì, fare un tour cinematografico e addirittura poter pensare a produzioni future, progettandole insieme.

Quanti Stati ha visitato?

Più di 10 Stati. Un viaggio bellissimo per una circuitazione soprattutto accademica: il sistema universitario americano, completamente diverso dal nostro, prevede che in ogni campus ci siano un cinema e un teatro aperti al pubblico, non solo agli studenti. Una soluzione distributiva che funziona molto per il cinema underground e indipendente.

In Italia sarebbe un sistema applicabile?

No, purtroppo: generalmente non ci sono cinema nelle università, mancano le strutture e non ci sono risorse per cambiare le cose. Sta di fatto che qua suonerebbe strano dire «Vado a vedere un film all’università», mentre là è assolutamente normale. E per chi fa cinema è davvero esaltante. Ho fatto tutta l’East Coast, e un’incursione nel centro, in Colorado, per poi nella seconda tornata esplorare la West Coast, la California. Oltre a «Maka» c’è stata l’occasione di portare «Talien», il mio primo film. Ho avuto l’opportunità di proiettarlo a New York e a San Francisco, città-cardine molto rappresentative rispettivamente dell’Est e dell’Ovest, che sono profondamente diversi. Lo spirito hippy, liberal, è molto californiano. A San Francisco è nato il ’68. Il free speech, il politically correct... Tre quarti del Pil americano, inoltre, si concentra in California: tutto l’hi-tech è lì.

Sedotto dal fascino di New York?

Certo, anche se New York non è la fotografia dell’America. È un meraviglioso fritto misto di culture.

Come Berlino non è Germania?

Esattamente. E basta allontanarsi di 30 chilometri da New York per scoprire un altro mondo. Straniante. Vai là con il tuo bagaglio culturale, frutto fondamentalmente di film e telefilm, ritrovi immagini iconiche ma quando cominci ad essere ospitato nelle case ti accorgi di tutte le differenze.

Una fra tutte?

I soldi: in America sono l’argomento principale. Si parla di soldi ovunque. L’America è fondata sul capitalismo e per loro non esiste un’accezione negativa in questo. Anche gli artisti hanno un planning. Devi capire la mentalità, altrimenti non smetti di giudicare e non va bene. È una realtà moderna e mi sono trovato bene ovunque.

Riscontri?

Ottimi. Sono rimasto felicemente sorpreso: andavo in un mondo saturo di cinematografia black, il rischio di passare inosservati c’era, mi aspettavo un’accoglienza più tiepida. Non è stato così, perché gli spettatori americani sono rimasti sorpresi a loro volta: non potevano credere che una figura come quella di Maka fosse una mosca bianca in Italia, davano per scontato il contrario.

Telegiornalista nera, caporedattrice e direttrice responsabile di un quotidiano in Italia, a Cosenza: nessuna ci era riuscita prima di lei.

Una storia fondamentale, autentica. E quando noi registi italiani raccontiamo la verità, funzioniamo. Non è un caso che il neorealismo abbia sfondato oltre i confini. Abbiamo insegnato a fare cinema al mondo, americani compresi, con giganti come De Sica, Rossellini, Fellini e poi Monicelli e Petri che è il mio preferito. Oggi il cinema italiano gode di nuovo di ottima salute perché è tornato a raccontare la vita, la verità, la società.

La rivincita dei documentari?

Negli ultimi anni ho sposato volentieri questo tipo di cinema. Anche in Italia si sta cominciando a capire che è un genere cinematografico importante quanto gli altri. Se volessi raccontare il Brescia Calcio, Baggio e Hagi, potrei farlo attraverso la fiction o in maniera documentaristica: è comunque cinema al 100 per 100. E quando è fatto bene, il documentario batte la finzione 40 a zero: si pensi a «Una Squadra», lineare e irresistibile nel raccontare la storia dell’Italia che vinse la prima Coppa Davis, una nazionale di guasconi brillanti, fenomenali. È tutta una questione di approccio, anche trattando di sé: nei miei lavori io non uso la mia biografia per sfogare egocentrismi, ma per raccontare chi e cosa mi sta attorno.

In «Maka» non racconta di sé.

Vero, anche se Simone Brioni mi ha chiesto di introdurre emozioni anche mie e abbiamo convenuto che sarebbe stato interessante mettermi in scena nei panni del regista che confessa i propri dubbi all’idea di girare il film.

Metacinema.

Adoro tutto ciò che è «meta». Ho pensato che Maka fosse l’occasione giusta. È la prima volta che dirigo qualcosa che non ho scritto e mi è piaciuto molto. Vista la storia di Maka, non volevo sbagliare una virgola. Le ho detto «Convincimi a fare questo film». Abbiamo scoperto di avere tratti caratteriali in comune: è una provocatrice autoironica, se fiuta razzismo o falsa retorica è implacabile. Lo stesso faccio io, che ho origini marocchine ma mi definisco prima di tutto un bresciano e utilizzo il dialetto per disintegrare le discriminazioni. Con il dovuto tatto e altrettanto rispetto, è giusto rompere schemi e luoghi comuni.

Prossima sfida?

Sto scrivendo il prossimo film e spero di cominciare a girarlo presto fra Italia, Marocco e Stati Uniti per chiudere la mia trilogia autobiografica, dopo «Talien» e «Kufid», e impegnarmi su altri fronti cinematografici.

Come si intitolerà?

Forse «Masir». In arabo significa percorso, destino. Mi auguro veda la luce nel 2025.

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