l'intervista

Cochi (e Renato) e quella comicità senza eredi: «La nostra, una follia creativa particolare e irripetibile»

di Gian Paolo Laffranchi
Aurelio Ponzoni, soprannominato Cochi dalla madre, metà comica del duo con Renato Pozzetto sarà a Brescia per presentare il suo ultimo libro
«La versione di Cochi» È il libro che Ponzoni (83 anni) presenterà domani alla Nuova Rinascita
«La versione di Cochi» È il libro che Ponzoni (83 anni) presenterà domani alla Nuova Rinascita
«La versione di Cochi» È il libro che Ponzoni (83 anni) presenterà domani alla Nuova Rinascita
«La versione di Cochi» È il libro che Ponzoni (83 anni) presenterà domani alla Nuova Rinascita

Ponzoni nato Aurelio all’anagrafe, soprannominato Cochi dalla madre, metà comica del duo più surreale d’Italia, gemello di Renato al secolo Pozzetto sul palco, artista a tutto tondo per la vita. Teatro e cinema, cabaret e libri come quello che presenterà a Brescia domani alla Nuova Libreria Rinascita (in via della Posta 7, ingresso libero), a partire dalle 18.45, con Stefano Rizzo: «La versione di Cochi» (Baldini + Castoldi, 240 pagine, 19 euro), firmato con Paolo Crespi.

Una scelta, un’esigenza?
All’inizio era qualcosa di privato: volevo lasciare una sorta di diario alle mie quattro figlie. Paolo, critico teatrale mio amico, l’ha proposto all’editrice Elisabetta Sgarbi. È diventato qualcosa di più strutturato, con tanto di foto d’epoca. Racconto la Milano che ho vissuto da ragazzo insieme a un sacco di personaggi importantissimi che io non sapevo neanche chi fossero all’epoca, ma erano grandi artisti. Ripercorro le mie avventure cinematografiche e televisive. La mia storia, i miei incontri: artisti come Fontana e Manzoni, e come Jannacci, Andreasi, Lauzi coi quali ho avuto la fortuna di collaborare.

Milano, Londra.
Volai in Inghilterra nel ’59 perché dopo ragioneria volevo perfezionare l’inglese. Da Londra al Nord, a Blackburn. Poi io e Renato Pozzetto, che conosco da sempre, iniziammo a frequentare Jannacci, che mi chiese di fargli scoprire la Swingin’ London. Un viaggio in tenda, indimenticabile.

Inghilterra, Monty Python: la comicità di Cochi e Renato viene da la lì?
Inevitabilmente l’influenza l’ho sentita. Facevano anche loro una trasmissione sulla tv inglese come poi abbiamo fatto noi e Paolo Villaggio in Italia. Conoscevo i Monty Python, mi divertivano tantissimo, possono essere stati fonte d’ispirazione anche inconsciamente quando avevo diciott’anni. In Inghilterra poi sono diventato amico del vero inventore di Candid Camera, Jonathan Routh. Anche lui, col suo modo di affrontare le situazioni della vita, mezzo matto com’era, ha aperto ulteriori spiragli nella mia creatività. Qualcosa che ho trasferito insieme a Renato nelle nostre cose.

Dal Derby di Milano, dove vi avevano scoperti Fo e Jannacci, alla ribalta nazionale della Rai, sempre all’insegna di una comicità alta.
Beh, sì: una comicità che aveva niente a che fare con quella tradizionale, con le barzellette e i monologhi stile Walter Chiari e Gino Bramieri. Niente a che vedere col vaudeville di allora.

Rivoluzionari, senza eredi?
Le nostre cose sono irripetibili onestamente: talmente nostre! Ci sono artisti bravissimi che fanno comicità surreale, ma la nostra è davvero particolare. Anche provocatoria. Un linguaggio di non-sense, indovinelli che gli spettatori devono sciogliere, ai quali si devono in qualche modo adeguare. Il bersaglio che centriamo risiede nell’io profondo della loro natura. Sono provocazioni comunque radicate nella nostra società.

Niente eredi, poco spazio all’improvvisazione.
Direi zero: noi studiavamo ogni frase, ogni parola. Pensavamo che quello che dicevamo dovesse avere anche una musicalità particolare, che non colpiva in superficie ma in profondità.

«Ridiamo ma non capiamo perché».
Ce l’hanno detto tante volte. Il massimo per noi.

Rivedere il documentario su Jannacci, l’irresistibile «Silvano» cantata in coro con Pozzetto, oggi fa sorridere e commuove allo stesso tempo.
Un’epoca senza eguali, veramente. Erano così spontanee le nostre cose, che sgorgavano forse dalla nostra follia creativa. Nascevano così, dal nostro modo di divertirci, di scherzare su quel non-sense che è la vita... Trovavamo tutto lì, nelle nostre esistenze, non c’era bisogno di cercare altrove.

La serata più assurda?
Una volta con Jannacci, Toffolo e Teocoli che non era mai stato su un palcoscenico, ballava e basta, abbiamo fatto una commedia musicale, «Saltimbanchi si muore». 1969, eravamo in tournée. Un lunedì il fratello di Dario Fo, Fulvio, ci disse che c’era un club culturale di Arezzo pronto a pagarci profumatamente per uno spettacolo. «Perché no?», ci siamo detti. Eravamo nelle vicinanze, a Firenze. Accettammo. Toffolo andò a Venezia, era un giorno di riposo in teoria e lui voleva tornare in famiglia, mentre noi altri andammo in questo circolo. Cominciammo a fare i nostri numerini: nessuna reazione, nessuno rideva. Ci dicemmo «ora arriva Enzo, spopolerà sicuramente». Ma nemmeno Jannacci riusciva a smuoverli. Anzi, cominciarono a piovere monete. Senza saperlo, eravamo stati scritturati da un club di fascisti che ci avevano chiamati per umiliarci. Il circolo si chiamava Giovane Italia. Dopodiché, siccome Teo fra il pubblico si era messo a scazzottare, arrivò la celere e andammo via scortati da una camionetta della polizia. Però poi ci hanno pagato. 

Tempi tosti.
Durante quella tournée, prima di andare in scena a Torino, sapemmo della strage di piazza Fontana. Sconvolti.

Ha imparato a suonare la chitarra da Giorgio Gaber.
Sì. Quando facevamo il Cab 64 c’era anche Ombretta Colli, fidanzata di Giorgio che le scriveva delle canzoni. Io dovevo accompagnarla alla chitarra e lui mi diede delle dritte che mi sono servite poi nel corso della carriera.

Chi è per lei Renato Pozzetto?
Il mio compagno di giochi. Ci siamo incontrati in fasce. È come essere più che fratelli. Il mio più caro amico.

Canzonissima fu il trionfo, la sigla «La vita l’è bela» un inno demenziale che resta: «Basta avere l’umbrela». Ancora la cantano tutti. Eppure vi separaste.
Serenamente. Dopo Canzonissima ‘74 ci proponevano film in coppia, ma non volevamo fare come Ciccio e Franco. Ci siamo dati entrambi al cinema, singolarmente, e ritrovati poi sul palco, nel 2000, anche perché nel frattempo l’amicizia era rimasta. In tutti questi anni ho avuto modo anche di fare tanto teatro di prosa, mio desiderio da sempre.

Cochi e Renato In «Sturmtruppen» ('76): anche sceneggiatori
Cochi e Renato In «Sturmtruppen» ('76): anche sceneggiatori

I momenti più divertenti?
Le invenzioni con Renato e Jannacci. Ma anche il primo film, «Cuore di cane» con la regìa di Lattuada, è stato qualcosa di magico. Con me c’era Max Von Sydow, un marcantonio di due metri che aveva appena fatto «L’esorcista» e «I tre giorni del condor». Un mito da quando vedevo i suoi film con Bergman al cineforum. Grande umanità, mi mise una mano sulla spalla trattandomi come un figlio. Anche di Lattuada sono diventato amico. Lui, Risi, Steno, Monicelli: ho avuto la fortuna di lavorare con grandi registi.

Se si guarda intorno oggi, fra gli attori chi le piace?
In ambito comico, sicuramente Corrado Guzzanti. Anche sua sorella Sabina. Poi Checco Zalone e i miei amici Aldo, Giovanni e Giacomo. Li lanciammo nel ‘92 io e Paolo Rossi, ai tempi di «Su la testa», e con loro anche Antonio Albanese e Bebo Storti. Talenti che hanno dimostrato la loro bravura nel tempo.

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