L'intervista

Daniela Cristofori: «Una gioia tornare a fare teatro nella mia città»

Psicologa e psicoterapeuta, attrice e regista. Dal teatro allo yoga, votata all’analisi come all’arte perché la vita non è fatta di compartimenti stagni e nessuno lo sa meglio di Daniela Cristofori. Non ci sono pareti nelle sue giornate se è vero che il legame con il marito Giacomo Poretti li ha resi coppia anche sulla scena, da ultimo nel delizioso «Funeral home» portato sui palchi di tutta Italia.

Le sue forme di creatività hanno in comune un’indagine dell’anima in profondità, da qualunque punto di vista la si osservi. Un’esistenza di vasi comunicanti?
L’immagine mi piace e mi corrisponde. Col senno del poi è più visibile anche a me. È stato un percorso articolato.

Prime esperienze teatrali a Brescia.
Sì. E dopo il corso del Ctb mi sono stata spostata a Milano per un’immersione di 3 anni alla Paolo Grassi. Quello che mi ha mosso è stata la voglia di fare teatro, nata sui palcoscenici parrocchiali. Io sono della zona di via Cremona, di Santa Maria della Vittoria. Ho cominciato con le operette che facevamo lì.

E perché decise di provarci?
In casa i miei non mi spingevano, non mi portavano a teatro: ho cominciato a farlo prima di vederlo a scuola, alle elementari. Fu un’intuizione, sacro fuoco senza imprinting. Mio papà essendo carabiniere aveva delle agevolazioni per il cinema: vedevamo tutti i Disney al Moretto, anche più volte perché ci si poteva fermare in sala dopo la prima visione. E ricordo Bud Spencer e Terence Hill, il Maggiolino tutto matto… Forse è iniziata lì la mia passione per il palco.

Bresciana, ma nata a Lecco: come mai? C’entra il lavoro del padre?
No, io sono nata a Brescia! È un mistero come su Wikipedia sia stato scritto che sono nata a Lecco. Non s’è mai capito come sia stato possibile ed è un errore che viene perpetuato nonostante sia stato più volte corretto. Ho fatto il mio sito ufficiale: sono bresciana, nata nella mia città. Ho frequentato la scuola media Pascoli: era davanti a casa mia, ma dovevo andare in una sezione distaccata alla Volta per una questione di aule, fino a quando la parrocchia non diede disponibilità con i suoi spazi.

Dopodiché, il liceo.
Volevo scegliere l’artistico, ma i miei non ci sentivano da quell’orecchio. Allora, siccome avevo un’attitudine per le lingue, scelsi il Lunardi. Un’esperienza bellissima, anche se dal punto di vista degli studi fu deludente: facevo inglese e tedesco ma il taglio era prettamente commerciale. Mi sono servite le vacanze all’estero in famiglia negli ultimi due anni, andando prima a Londra poi in America. Per questo parlo inglese molto bene.

Ama viaggiare?
Tantissimo, da sempre. Forse la vita del teatrante, che è un po’ viandante, era dentro di me.

Viaggi, lingue, palchi, studi, esercizi per il fisico e per la mente: di certo non s’è mai annoiata.
No, e il viaggio è nel Dna perché sono figlia di migranti. Mia mamma Teresa era di Verona; ha conosciuto mio padre Marino, che era emiliano, perché era di servizio lì. Per un trasferimento scelse Brescia perché era vicina a Verona, dov’è nato mio fratello maggiore. Verona è la mia seconda città, mi sento a casa anche lì. Ho perso i miei genitori di recente: mio papà è mancato durante la prima ondata di Covid, mia mamma a gennaio. In questo periodo sto facendo memoria di tante cose, tanto vissuto. Sento i miei genitori presenti ora più di prima. Ne parlo con i miei pazienti, così come parlo di vita e di morte attraverso lo spettacolo che ho messo in scena con mio marito Giacomo.

«Funeral home» è un testo coraggioso: tratta un tema inconsueto con leggerezza e profondità insieme grazie all’ironia che è anche cifra di voi due. Quanto è difficile trovare un equilibrio come coppia in due ambiti così diversi?
Io potevo tornare sul palco solo con mio marito. Mai e poi mai avrei pensato di farlo altrimenti. Con Giacomo mi sento sempre a mio agio sulla scena; come Aldo e Giovanni ama improvvisare, anzi non vede l’ora che capiti un imprevisto. Anche questo per me è stato motivo di apprendimento. La partita è tutta da giocare, ogni volta. Si può invecchiare insieme, in coppia. Una tournée è impegnativa, ma anche vivificante. Una gioia, anche per le città che abbiamo potuto visitare. E il teatro è terapeutico, per chi lo fa e per chi lo vede. 

Perché la morte è ancora tabù? A Bolzano è stata rimossa per giorni, prima di essere riammessa al Museo Civico dopo tante polemiche, l'installazione di Gabriele Picco che rappresentava la fragilità delle cose attraverso una lapide dedicata a una nuvoletta. Una metafora poetica. Poteva considerarsi un'offesa alla religione? Chi poteva sentirsi disturbato da un'opera del genere?
Questa censura è stata sconvolgente. C'è una rimozione generale di un tema cruciale. Eppure possiamo usare la vita per districare certi nodi, per quanto dolorosi, senza metterli sotto il tappeto. Tante persone sono venute a salutarci dopo «Funeral home» con le lacrime agli occhi per la scomparsa di un loro caro, dicendo che lo spettacolo le aveva rasserenate, aiutandole ad affrontare il lutto. È compito degli artisti affrontare queste tematiche. Se non lo facciamo noi! Io nella vita stavo facendo altro, prima di capire che dietro la maschera del teatro avrei potuto dire tutto quello che voglio e comunicare con tanta gente. Sono grata al fatto di essere tornata sul palco rientrando dalla porta principale, in virtù della notorietà di mio marito.

Che non è piovuta dal cielo, frutto di tanta gavetta dagli albori come capovillaggio ai successi-record al cinema.
Sì. E a disposizione di questo strumento, la fama, ho messo le mie competenze. Un'emozione incredibile riprendere a fare teatro, come tornare a Brescia dove ho vissuto fino ai 22 anni. I primi amori, le amicizie per la vita, i primi concerti...

Si ricorda il primo?
Certo: Steve Hackett. Sono sempre stata fan dei Genesis.

Complimenti. Ora risiede a Milano?
Sì, da tempo. Ma ho continuato a fare avanti e indietro per vedere i genitori, fino a quando sono rimasti in vita. La casa di Brescia l'abbiamo venduta nel 2019. Da allora non ero più tornata in città fino alla tournée.

A Brescia e provincia.
Sì, siamo stati anche a Lumezzane, a Breno, a Manerbio, a Montichiari dove sono venuti tanti amici. Ho rivisto professori e compagni di scuola dopo tanto tempo.

Ha un sogno?
Beh, uno si sta già realizzando e corrisponde all'immagine dei vasi comunicanti di cui dicevamo prima. Poi ho una speranza: che questo lavoro creativo diventi un teatro di famiglia, che nostro figlio Emanuele, ora studente al liceo classico, possa maturare la sua vena artistica in una bottega a gestione familiare. Non si tratta di diventare ricchi e famosi, ma di lasciare un segno con un lavoro tanto bello.

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