INTERVISTA

Federico Montuschi

di G.P. Laffranchi
«Scrivere è una maratona Stai bene se arrivi alla fine»

Non si capisce quante ore abbiano le sue giornate. Laureato - oltre che in ingegneria gestionale - in multitaskologia all'università della vita, che lo ha portato ad esperienze in giro per il mondo (Londra, Chicago, Madrid fra le tappe del percorso), Federico Montuschi è un prisma di creatività. Libri e lavoro, musica e sport: nel suo personalissimo diario ci sono pagine diverse e importanti, un costante e coerente nonm'annoio declinato in varie direzioni assortite. Prossimo traguardo (o punto di ripartenza): l'uscita del romanzo «8:08», prevista la prossima settimana sotto le insegne di Serra Tarantola dove sarà presentato ufficialmente il 4 dicembre (l'1 dicembre anteprima al Nero Cafè di Rezzato). E saranno presentazioni musicali, con l'autore in duo acustico insieme a Rosario Rampulla.

Un viaggio che pare il migliore degli antidoti possibili a qualsiasi eventuale forma di taedium vitae. Da dove è partito?
Da Brescia. Anzi, da Gardone Valtrompia, perché l'ostetrica di mia madre si era spostata lì ed è lì che sono venuto al mondo il 23 luglio 1973. Leone ascendente Leone.

Dov'è cresciuto?
A Mompiano. Elementari, medie alla Virgilio, liceo linguistico Calini, quindi ingegneria gestionale.

Un ricordo della sua infanzia/adolescenza?
Parlo il trancorio. Mompiano come Mompracem si era dato una lingua per i suoi tigrotti: al tempo lì tutti parlavano trancorio. E gli studi linguistici hanno rinvigorito la passione. Il trancorio è una lingua: come il catalano.

In casa che input riceveva?
Mia mamma Edy insegnava italiano ed è drammaturga. Mio padre Giovanni, che è mancato, era laureato in fisica e informatore medico. Mio fratello maggiore di un anno, Andrea, ha vissuto 5 anni a Londra e si occupa di risorse umane: engagement, soddisfazione del personale.

Come trova posto il calcio nella sua vita?
Il calcio è l'unica cosa in cui abbia creduto fino in fondo. Ho giocato per 8 anni nel Club Azzurri. Portiere.

È vero che siete tutti matti?
Cavolate. A me piaceva Zoff! Essenziale, parava quello che doveva parare. Mai sopportati quelli sopra le righe.

La qualità imprescindibile di un portiere?
La sicurezza. Deve averla e di conseguenza deve trasmetterla. Il complimento più bello l'ho ricevuto quando giocavo, nell'annata in cui abbiamo vinto lo scudetto nel campionato italiano universitario, da un mio compagno: «Quando ti fai vedere sbagliare una volta?». Se era successo, se n'era accorto nessuno.

Ottimo segno. Portiere preferito Zoff, dunque?
In realtà Bordon: ex Inter, aveva giocato nel Brescia. Ora mi piace Donnarumma.

Se dovesse riassumere la sua carriera?
Tanto Club Azzurri, poi Orceana, Settaurense con uno spareggio in Eccellenza, Romanese in D e gli ultimi 4 anni a Vestone. Ho smesso a 26 anni quando ho capito che non miglioravo più. E sono andato a lavorare a Madrid.

Subito dopo la laurea?
Mi sono laureato nel '97 e ho iniziato a lavorare in una società di consulenza americana, nell'ambito delle fusioni fra banche. Ho preso l'Mba, il Master in Business Administration; sono partito nel 1998 e sono rimasto in Spagna fino al 2001.

Perché è tornato?
Per amore. Convivevo con una ragazza francese, Christelle, conosciuta a Brescia nel 1997 quando era assistente in lingue e abitava con ragazze che studiavano a ingegneria: quello è stato il contatto. Quando ho finito il Master a Madrid, Christelle voleva stare in Italia. Ed eccoci qua. Madrid, Londra, Chicago, poi nel 2005 sono uscito dal mondo della consulenza per un'offerta di lavoro bresciana. Nel 2005 è nata la prima figlia, Iris, che ora ha 16 anni. Emma ne fa 11 a dicembre. Nomi italofrancesi.

Beato fra le donne.
Speravo di avere solo figlie femmine: non volevo indirizzare l'eventuale maschio sui miei interessi.

Fra i quali spicca la musica.
Sì. Da ragazzino ho studiato musica fino alla terza media: clarinetto, mandolino. A quel punto i miei mi hanno detto «Scegli»: non ho fatto più niente, finché al liceo ho conosciuto gente che suonava e mi sono messo a suonare con loro. Ho preso la chitarra e non l'ho mollata più.

Sempre rock?
Il rock è un amico per tutta la vita. Con gli amici storici ho dato vita al gruppo Dog Day Two: insieme a Luca Morali, Beppe Pedersini e Cristiano Pellegrini da 10 anni faccio cover '70, '80 e '90 nei locali di città e provincia. Il mio genere preferito è il britpop. Da 3 anni, inoltre, partecipo al progetto Zero Tituli con genitori musicisti della scuola di mia figlia Emma.

Chitarrista del cuore?
Ho tre idoli: Mark Knopfler, David Gilmour, Eric Clapton.

Studiava, suonava, scendeva in campo. Scriveva?
Mi è sempre piaciuto. A scuola andavo bene nei temi, ma solo all'università ho iniziato a tenere un diario. Un quaderno dei pensieri che mi ha accompagnato per tanto tempo, e che riapro ogni tanto. Uno sfogo che mi fa star bene, come scrivere i romanzi.

Come ha cominciato?
Tutte le sere inventavo storie per far addormentare le figlie. Ho pensato di sfruttare quella vena creativa facendo come faccio in ogni cosa nella vita: provando, impegnandomi. Ho pubblicato il primo romanzo, a cavallo dei quarant'anni, nel luglio del 2013.

Autopubblicato, «Quasi noir. Cercando il diesis tra il mi e il fa»: un successo.
L'e-book è andato così bene che mi sono ritrovato all'improvviso al terzo posto nella classifica di vendite del Corriere della Sera. Ricordo come l'ho scoperto: ero al lago, stavo per buttare i giornali per la raccolta della carta quando mi è capitato fra le mani l'inserto domenicale e mi è caduto l'occhio sulla classifica... Non ci potevo credere. Dopo quel podio mi hanno chiamato un po' di editrici, ho ripubblicato con una casa di Milano, venduto ancora e si sono aperte altre porte.

Così è approdato a Serra Tarantola.
Editore a chilometro zero. Nel 2017 è uscito «Due dispari», poi Premio Nazionale Amarganta. Adesso «8:08».

Come nascono le idee dei suoi romanzi?
Cito Massimo Carlotto: buoni tutti a scrivere, la differenza è avere una storia da raccontare. La storia la trovi se hai le antenne alzate e la voglia di lavorarci sopra. I personaggi diventano amici mentre ne scrivi e dopo un po' ti dicono cosa vogliono fare. Nell'ultimo romanzo ho messo tanto del mio vissuto a Madrid. In quello precedente c'era il Costa Rica ascoltato nei racconti dell'altro straniero presente con me al Master in Spagna. Sulla pagina finisce quello che assorbo.

I modelli?
Carlotto, appunto. E poi l'israeliano Eshkol Nevo: ha uno stile aulico, ogni volta che lo leggo evidenzio cose. In passato ho avuto il momento dostoevskiano. Amo gli scrittori che emozionano. Io stesso scrivo per emozionare chi legge. Un impegno che assumo anche per il rispetto che nutro verso il lettore, che ci regala il suo tempo. L'uomo misura il tempo, ma il tempo misura l'uomo.

Cos'è per lei scrivere?
È star bene, alla fine. È un po' come correre una maratona, cosa che ho fatto vent'anni fa. Durante la corsa pensi solo alla fatica, poi però la soddisfazione è grande.

Il suo sogno da scrittore?
Scrivere una storia su qualcuno diverso da me in tutto.

Suggerimenti