Marcinelle, viaggio nel dolore Il racconto di un soccorritore

di Lino Febbrari
L’ex minatore  Lino Rota durante il suo racconto di dolore fatto a MalonnoUna istantanea  d’epoca del disastro di Marcinelle
L’ex minatore Lino Rota durante il suo racconto di dolore fatto a MalonnoUna istantanea d’epoca del disastro di Marcinelle
L’ex minatore  Lino Rota durante il suo racconto di dolore fatto a MalonnoUna istantanea  d’epoca del disastro di Marcinelle
L’ex minatore Lino Rota durante il suo racconto di dolore fatto a MalonnoUna istantanea d’epoca del disastro di Marcinelle

Ha gli occhi lucidi Lino Rota, ex minatore di 92 anni, e più volte la sua voce si incrina mentre descrive l’orrore accaduto la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio, e le frenetiche e purtroppo inutili operazioni di soccorso. L’inchiesta ufficiale delle autorità belghe stabilì che l’incendio fu provocato dalla combustione di olio ad alta pressione innescato da una scintilla: l’elevatore che scendeva nelle viscere della Terra tranciò un cavo elettrico e, dal condotto d’entrata principale del pozzo, in pochi minuti le fiamme si svilupparono nelle gallerie sottostanti, fino a più di un chilometro di profondità. Solo sette minatori miracolosamente si salvarono, 262 morirono bruciati o asfissiati dal fumo; 136 gli immigrati italiani che persero la vita nei cunicoli, e tra loro anche un camuno: Giuseppe Bontempi, nato a Bienno il 31 dicembre del 1925. Tra i soccorritori chiamati a recuperare i corpi c’era anche il bergamasco Rota (originario di Nembro), che sere fa, nella canonica di Malonno ha raccontato a un pubblico attento quell’immane tragedia. «Lavoravo in un’altra miniera della zona e facevo parte della squadra di soccorso presente in ogni sito minerario. Verso le 9 di quel mattino - ricorda l’anziano - il capo squadra mi disse di recarmi in ufficio insieme ai miei due colleghi. Trovammo l’ingegnere responsabile dell’impianto che ci mise al corrente di quanto era accaduto a meno di dieci chilometri di distanza e ci spiegò che dovevamo immediatamente raggiungere il luogo del disastro per partecipare alle operazioni di soccorso». Nel primo pomeriggio, non appena i vigili del fuoco riuscirono a spegnere il rogo, Lino Rota e la sua squadra si calarono fino a meno 370 metri e iniziarono a percorrere una galleria orizzontale. «Percorse poche decine di metri abbiamo visto dei cadaveri - racconta -, erano addossati a una porta che chiudeva un’altra entrata nel pozzo principale. Quello che non mi scorderò mai era in particolare un minatore riverso a terra vicino a un pilastro di legno che reggeva la volta: la parte inferiore del corpo era quasi del tutto carbonizzata, aveva gli occhi aperti e sul suo viso annerito si leggeva il terrore che aveva provato poco prima di morire. Un altro poco distante, morto soffocato dal fumo, aveva invece il volto nero per la polvere di carbone rigato dalle lacrime». «Per due settimane abbiamo fatto l’impossibile, scendendo decine di volte in quel maledetto pozzo - prosegue commosso Rota - ispezionando ogni anfratto alla ricerca di eventuali superstiti. Purtroppo fu tutto inutile: gli unici a salvarsi furono i sette che si trovavano vicino alla superficie: tutti gli altri li riportammo su chiusi nei sacchi. Fu una catastrofe che mi ha segnato per tutta la vita». L’ex minatore bergamasco è arrivato a Malonno grazie all’amicizia che da qualche tempo lo lega al Gruppo speleologico camuno, un sodalizio che qualche anno fa ha preso a cuore le vecchie miniere Ferromin, le cui gallerie si inoltrano per oltre un chilometro nella montagna alle spalle del paese: in parte sono state messe in sicurezza dagli stessi appassionati che durante l’estate organizzano viste guidate. «La serata con Lino è stata toccante - dice Stefano Morandi, responsabile del gruppo -. Ho visto tutti seguire con grande attenzione il commovente racconto di quella missione e la ricostruzione del dramma».•.

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