GROSSO D’ORO. Il sacerdote, «ribelle per amore», si formò negli anni della lotta partigiana

Padre Cittadini, la vocazione
di un cristiano «resistente»

di Luciano Costa
Padre Giulio Cittadini mentre interviene a un recente convegno
Padre Giulio Cittadini mentre interviene a un recente convegno
Padre Giulio Cittadini mentre interviene a un recente convegno
Padre Giulio Cittadini mentre interviene a un recente convegno

Luciano Costa

Gli anni che gli scorrono davanti come se fossero già racchiusi in una poderosa enciclopedia, padre Giulio Cittadini prima li esibisce col sorriso «un po’ così» che il suo amico padre Carlo gli aveva raccomandato di non cancellare mai dal viso, poi li mette ordinatamente in mostra, «perché dal mio punto di vista – sottolinea – sono tutti importanti, tutti degni d’essere ricordati».

Di anni padre Giulio ne conta già novantuno, però non li dimostra; e se non fosse per gli inevitabili acciacchi - gambe che dormono e occhi che piano piano si stanno spegnendo - starebbe volentieri tra i ragazzi dell’oratorio. Oggi come ieri, il vecchio padre abita una stanzetta della Pace, circondato dai libri che gli hanno riempito la vita – il primo in alto è di Agostino, «Le confessioni», tradotto dal suo amico Matteo Perrini -, dalle fotografie che fanno memoria del tempo e da qualche immagine sacra. Sulla scrivania, dove le mani ormai si muovono soltanto a memoria, insieme al vecchio breviario, allinea fogli sparsi a cui affida pensieri e ricordi; in un angolo c’è il suo letto «di riposo e di attesa del giorno»; appoggiato alla parete di fondo c’è l’armadio di legno in cui conserva qualche maglione, appunti e libri storici, «antichi come me – dice -, ma sempre utili per ricordarmi che la vita è breve».

Dentro l’armadio, in una scatola di latta consunta, conserva i suoi «averi» segreti e significativi: un Vangelo sopravvissuto alle temperie delle guerre; il basco che indossava ai tempi della sua militanza nella Resistenza, tra le Brigate Garibaldi; alcune lettere dal fronte; una corona del Rosario; un moccolo di candela, «quel che resta della provvista che rischiarava le notti passate in montagna»; un nichelino sopravvissuto alle varie spogliazioni e i fregi del partigiano, «ribelle per amore, mai per vendetta».

PADRE GIULIO, per evitare che il premio che gli hanno attribuito – «non lo merito – dice convinto -, lo accetto come viatico per i giorni che mi resteranno da vivere» - diventi un tarlo attorno al quale attorcigliare pensieri e ricordi, parla di «una vita meravigliosamente vissuta», di amici comuni, di tanti passaggi alla Pace sperando incontri ravvicinati coi vari Bevilacqua, Marcolini, Caresana, Manziana, Olcese e Bendiscioli, della serenità ecumenica che lo invadeva dopo ogni incontro col «soave e mansueto» Matteo Perrini, dei giovani di oggi, «meravigliosi», ma che dovrebbero «osare di più, darsi da fare, non restare in disparte, mettersi in gioco anche in politica, che è buona se buoni sono coloro che la fanno».

Ovviamente, parliamo anche della sua lunga vita. Nato a Trento da genitori bresciani all’alba del 15 febbraio 1924, «anche allora festa dei Santi Patroni»; tornato assai presto a Brescia, «la mia mia città, come la Pace – dice padre Giulio - è il mio Oratorio e la parrocchia dei Santi Nazaro e Celso la mia parrocchia essendo vissuto con la famiglia in piazzale Roma»; anni scolastici condivisi con amici come Ettore Cassa, poi il tempo della Fuci con padre Carlo Manziana, l’approccio ai gruppi dell’antifascismo, la decisione di schierarsi «radicalmente e cristianamente» con coloro che si battevano per conquistare libertà e democrazia. Cesare Trebeschi, che con padre Giulio ha condiviso utopie giovanili e speranze quando intorno c’erano soltanto miserie e macerie, ricorda «il giovane impetuoso, pronto a sfidare il mondo, senza paura e senza l’ombra di un interesse» che un giorno arrivò a Cellatica, nella casa dei genitori, in bicicletta e con il fucile a tracolla, «seminando spavento e obbligando mamma e zia a nascondersi in cantina». Invece, arrivava portando documenti «che era meglio affidare a gente sicura», munizioni da far arrivare ai partigiani delle Fiamme Verdi e tanti saluti, «perché lui era già pronto a trasferirsi in Val d’Aosta per arruolarsi nelle Brigate garibaldine».

«CHE TEMPI! Il mio nome di battaglia – ammette padre Giulio - era “Manzio”, in onore del mio amico padre Carlo Manziana, già internato a Dachau; i miei punti di riferimento erano Teresio Olivelli, Astolfo Lunardi, Emiliano Rinaldini (martirizzato alle Pertiche, il cui sangue macchiò “L’imitazione di Cristo” il libretto che sempre portava con sé) e Gino Pistoni, un partigiano piemontese, che colpito da una scheggia di bomba tedesca trovò la forza di scrivere, servendosi di un ramoscello intinto nel suo stesso sangue, “offro la mia vita per l’Azione Cattolica e per l’Italia: viva Cristo Re”».

Poi, dopo la guerra e con in tasca gli aneliti di libertà conquistati in montagna, il ritorno a Brescia, la vocazione al sacerdozio, la scelta di diventare Padre della Pace, i trentaquattro anni di insegnamento, di cui diciassette al Liceo Arnaldo, gli otto libri scritti da quando «mi son ritrovato pensionato». Per il resto, dice sorridendo padre Giulio «passate dopo che gli anni avranno concluso il loro viaggio e il tempo dell’attesa di vivere avrà occupato ogni angolo del mio giorno».

Suggerimenti