in valcamonica

Ghiacciaio dell'Adamello in agonia, a qualcuno interessa?

di Lino Febbrari
Una domanda che sorge spontanea considerando che all'incontro divulgativo organizzato dall'Università della montagna di Edolo erano ben poche le persone presenti

 Il cambiamento climatico e la prossima e disastrosa fine dei ghiacciai interessa a qualcuno? A giudicare dal seguito registrato da un recentissimo approfondimento sul problema non a molti. Eppure tra poco più di 30 anni (lo sostengono da tempo gli studiosi) i ghiacciai dell’Adamello e quelli posti sulle Alpi più o meno alle medesime quote spariranno per lasciare spazio a sporadici nevai e sempre più vaste morene. Lo scenario pauroso è stato ribadito a chiare lettere sere fa nell’Università della montagna di Edolo, che ha ospitato una delle serate divulgative organizzate sul territorio dal Parco dell’Adamello in chiusura del progetto «ClimADA»: uno studio approfondito condotto sul Pian di Neve per appurare la drammatica situazione provocata sostanzialmente dai cambiamenti climatici indotti dal fortissimo impatto delle attività umane sull’ecosistema.

I grandi assenti all'incontro

Probabilmente per una serie di fattori che non ci compete approfondire, l’incontro non ha suscitato quel grande interesse in termini di partecipazione che gli organizzatori certamente si aspettavano.

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In primis sono mancati (forse per l’orario?) i rappresentanti delle associazioni ambientaliste, e in sala c’erano una decina di persone, mentre altre (quante) erano collegate in remoto.

La relazione

Eppure l’argomento è centrale, diremmo vitale, e molto interessante la relazione del glaciologo Claudio Artoni, dell’Università Milano Bicocca: un giovane e appassionato ricercatore che si occupa dell’analisi di carote di ghiaccio e campioni di neve, come quella estratta sul Pian di Neve (lunga ben 224 metri), che ha fatto il punto sui primi risultati delle analisi in corso.

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Test atomici congelati

«Nel ghiaccio che stiamo esaminando abbiamo rinvenuto molti marker per la datazione di questa carota - spiega il giovane ricercatore -. Un paio di esempi: l’attività della Prima guerra mondiale e i test nucleari svolti negli anni ’70». Un altro dato preoccupante rilevato durante la campagna di ricerche si riferisce alla notevolissima diminuzione del ghiacciaio più grande dell’arco alpino italiano sia in spessore, sia per estensione, ma soprattutto nell’arretramento del suo fronte. «Tutto ciò è riscontrabile anche nei due carotaggi che abbiamo effettuato nel 2016 e tre anni dopo - conferma Artoni - e purtroppo la perdita di massa glaciale è molto importante soprattutto a livello superficiale. Nelle carote abbiamo rinvenuto tracce di polveri di sabbie sahariane, che ovviamente posandosi sulla superficie la rendono più scura provocando di conseguenza una maggiore fusione nei mesi estivi».

Dopo aver presentato tutta una serie di dati accompagnati da slide e fotografie, Artoni ha svelato come si procede nell’analisi della carota estratta a oltre 2600 metri di altitudine e del diametro di circa 8-10 centimetri. «L’abbiamo trasportata a pezzi nei nostri laboratori mantenendola a un temperatura di meno 20°, quindi come se fosse in un freezer di casa - racconta lo studioso -. Al momento della fusione di un pezzetto, attraverso strumenti specifici riusciamo a realizzare analisi microfisiche e osservare poi quali sono le particelle contenute, che dimensioni hanno, che mineralogia hanno e le varie proprietà ottiche e microfisiche».

La causa è umana

La temuta sparizione dei ghiacciai («che in futuro potrebbe causare vere e proprie guerre per l’acqua») è sicuramente dovuta all’impatto antropico, poi possono influire su questa gravissima situazione anche cicli climatici multisecolari o fenomeni di altro genere. «Tuttavia - conclude Artoni - è un fatto assodato che stiamo immettendo in atmosfera troppa anidride carbonica e che ogni anno che passa la situazione peggiora. Per cui, almeno per la nostra generazione e per quelle che ci seguiranno, sono praticamente nulle le speranze di rivedere questi luoghi come li hanno visti i nostri antenati».

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