«L’arte è poesia
alla riscoperta
dell’umanità»

Cosa resta, di quello che passa. Cosa si lascia, quando tutto svanisce. Chiamarlo esistenzialismo, un insieme di suoni come un altro. Ma è filosofia non spiccia. Tutt’altro. Una scelta di vita, questa chiamata alle arti. Giuseppe Rivadossi l’ha vissuta, e vive, così. Lui che plasma le cose, e sa quanto prezioso possa essere un callo. Lui che le mani le fa andare con gli occhi bene attenti, il cuore acceso e la mente rivolta a una ragione ulteriore, superiore. Universale. Il senso autentico. I suoi mobili sono sculture. Le sue opere, innumerevoli. La sua visione una, che si specchia «in un obiettivo preciso». «Avevo un’ambizione - si racconta lo scultore di Nave, 83 anni da compiere l’8 luglio, nell’officina creativa di via Borano -. Ho voluto dire una parola che fosse interessante per il mio tempo. Non sono stato capace di dirla tutta e bene, ma è ciò che ho sempre voluto. Ed è difficile realizzare qualcosa in un mondo che ha la testa delle nuvole».

Lei ama la concretezza. Per questo, dopo una retrospettiva parigina nel 2016, quest’anno alla Pieve di Urago Mella ha messo insieme in una mostra oltre mezzo secolo di lavoro tra legni, bronzi e gessi?

Io... Ho cercato di esprimere il sentimento di esistere oltre i limiti del momento.

Quanto è cambiato il mondo dell’arte da quando ha cominciato nel 1967?

Bisogna capire il tempo in cui si vive. Per dire, l’Ikea oggi ha un senso. Garantisce un servizio. Importante, giusto. Ma non dimentichiamo il linguaggio dell’arte: la poesia, che dovrebbe entrare in tutto il nostro operare. Chi sa comprendere l’umanità è già un poeta, perché parla al cuore delle persone.

Cos’è la poesia?

La poesia non è mai contro. È il buon rapporto fra gli elementi della vita. Non è un lavoro facile, oggi. Bisogna andare in controtendenza.

Lei ha ricevuto il mestiere in eredità da suo papà Clemente. Cosa le ha insegnato?

Innanzitutto, il valore umano del buon costruire. L’ho appreso da lui, da subito. Poi, il rigore delle strutture, sia come funzione che come assemblaggio. Spiegava poco, ma era capace di farsi capire con l’esempio. Io sono abbastanza stagionato da ricordarmi la fine della civiltà arcaica tipica di tutte le zone di campagna, dopo la Seconda Guerra. Un periodo nuovo, le materie diverse, le macchine: sono spariti gli attrezzi tipici di un mondo, straordinaria intelligenza tramandata da secoli.

Lei ha dimostrato di prediligere il legno, suo compagno in tante creazioni. Nell’arte la materia può avere un’anima?

Alt, andiamo adagio a parlare di anima. Il legno ha caratteristiche sue: se riveste uno spazio abitativo già lo rende più accogliente, è un isolante eccellente. Fa parte della vita, della natura. Le mie scelte sono naturali, sì. Non dipingere sculture, non patinare terracotte. Ciò che conta è comunicare una dimensione poetica che confina col mistero, che porta bellezza e umanità, il piacere del rapporto con la vita. Il rischio più grosso è l’artificiosità. Nell’arte si sta spegnendo la vita vera. Invece bisogna trovare un proprio linguaggio per comunicare qualcosa che non sia banale. La vera comunicazione parte dalla percezione, dalla riconoscenza delle cose, dell’universo di cui facciamo parte. La comunicazione del cuore: riconoscere l’altro come parte di noi stessi. Qualcosa che la cultura ufficiale così tecnoide trascura. La fantasia… Io ho difficoltà a comprendere i dada-o... Surrealisti, dadaisti, non ne parliamo! Un fenomeno venuto fuori quando un modello di vita stava per essere abbandonato e regnava l’entusiasmo di futuristi e compagnia bella, che credevano di entrare in una nuova civiltà.

Dove sta l’umanità?

Anche nei ricci delle castagne raccolte con zio Leone. È nella natura. Ho letto che una scrofa un paio di giorni prima di partorire se è in libertà prepara un letto di fieno per i suoi maialini. Lì c’è già vita. L’arte deve coglierla. L’artista deve aiutarci a riconciliarci con la vita, riconoscendola. Oggi tendiamo a vederla come invenzione. Una fandonia.

L’arte come poesia della vita, come canto corale?

Assolutamente. L’arte è poesia! Si giustifica solo come comunicazione poetica.

È l’essenzialità a fare la differenza?

Sì, da sempre. Se guardiamo le opere migliori di tutti i tempi, sono tutte caratterizzate da un’essenzialità che è alla base del linguaggio dell’arte. L’arte preistorica era qualcosa di puro, quando non c’era ancora una cultura codificata. L’istinto di sopravvivenza: rappresentare il toro nasceva dall’idea che così diventava più facile catturarlo. Ma era anche l’espressione di una capacità di meraviglia. Fare arte per me coinvolge tutti i sensi, atti a scoprire la vita.

La sua opera preferita?

Sono affezionato alle mie idee, il mio egocentrismo è patologico. Qualche opera ci sarà, ma più facilmente ricordo quelle uscite male. Direi... «L’alba, la terra, la mia casa», comperata anche dalla Soprintendenza qui. Adesso sarà nei magazzini, in fondo in fondo. Ma esprime molto della mia visione: c’è l’abitazione, una porticina, all’interno di un fatto che sta irradiando nell’universo.

Quanto può durare un’opera?

Il tempo del materiale con cui è fatta. La bellezza, l’umanità, la coscienza sono i valori che restano, e valgono per tutte le vite e tutte le culture. Ripeto: tutte, le culture. Mi sono spiegato? Fra noi, gli orientali e i nativi americani se andiamo a vedere bene c’è un filo che ci lega, e porta alla conoscenza dell’uomo.

Da Testori a Olmi, passando per Botta e Sgarbi, in tanti hanno scritto di lei. Da chi si è sentito capito?

Gli altri capiscono sempre qualcosa, alcuni particolari di quel che si fa. Ma è più che giusto che non si capisca del tutto. Comunque, per l’arte è un periodo di grande confusione: da una ventina d’anni chi scrive mescola su tutto, Dada con Michelangelo con i tagli di Fontana. Prevale un trionfalismo scientifico che vorrebbe sostituirsi alla realtà, che richiederebbe più umiltà. L’uomo ha un suo limite, anche se crede di poter arrivare in fondo all’universo.

Cos’altro l’appassiona?

Credo di essere arrivato solo adesso a iniziare a capire un po’ di letteratura. Leggevo e per carità, non sono ignorante come un bue. Garcia Marquez è pieno di umanità, «Il sergente nella neve» di Rigoni Stern è un libro straordinario. A me preme il recupero in ogni forma d’arte di una dimensione umana.

Cos’ha voglia di realizzare adesso?

Vorrei passare una certa voglia di fare, una coerenza, ai miei figli Emanuele e Clemente, che l’hanno vissuta in famiglia da quando sono nati. Certe volte mi devono richiamare, frenare, e io devo sottostare, e ringraziarli. Voglio cercare di essere in sintonia con le persone. Ma anche con la natura, con l’infinito. È fondamentale.

La sua visione delle cose.

La scienza le mostra, le cose, ma io credo nella poesia che prende un punto e lo approfondisce. Solo con la poesia si può sentire l’unità delle cose. Il senso della vita: la vita stessa.

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