Fratellini uccisi, è definitivo: carcere a vita per Iacovone

di Mario Pari
La casa di Ono San Pietro dove si consumò il duplice omicidio
La casa di Ono San Pietro dove si consumò il duplice omicidio
La tragedia di Ono San Pietro

Non ci sarà un altro processo: per la giustizia la condanna all’ergastolo di Pasquale Iacovone è definitiva.

L’udienza in corte di Cassazione si è tenuta ieri e la conferma della condanna inflitta in primo e secondo grado è stata chiesta dall’accusa pubblica e privata.

Pasquale Iacovone sconterà il carcere a vita per aver dato fuoco ai figli Davide e Andrea, di 12 e 9 anni, la mattina del 16 luglio 2013, uccidendoli.

Quel giorno a Ono San Pietro le fiamme avvolsero anche lo stesso Iacovone, che non sembrava avere speranze di sopravvivere. Nonostante le ustioni gravissime, invece, è sopravvissuto al rogo, al punto da poter essere presente al processo d’appello e di poter rilasciare dichiarazioni spontanee.

NEL RICORSO in Cassazione l’avvocato difensore di Iacovone, Gerardo Milani, aveva chiesto l’annullamento del processo sottolineando quella che a suo dire era stata «una mirata sequenza di violazioni di norme processuali, costituita da singoli atti tutti iniquamente penalizzanti e finalizzati, nel loro insieme, a precludere la concreta possibilità di intervento difensivo, a qualsiasi titolo, nell’assunzione dei mezzi istruttori». L’avvocato Gerardo Milani inoltre, con riferimento all’incendio aveva evidenziato che «sotto il profilo probatorio, le risultanze della perizia destrutturano il postulato accusatorio, in quanto, le circostanze, per le quali l’innesco dell’incendio è avvenuto in cucina e che lo Iacovone è stato ritrovato in camera da letto, rendono credibile l’ipotesi che l’incendio sia stato appiccato da una terza persona; ipotesi che corrobora il contenuto delle frasi proferite dallo Iacovone ai primi soccorritori».

MOLTO DIVERSAMENTE si erano pronunciati i giudici della corte d’assise d’appello nelle motivazioni del processo di secondo grado che confermava l’ergastolo. «L’imputato - secondo la Corte - spinto da rancore e odio inaudito verso la moglie, da lui tormentata e molestata per oltre un anno, aveva deliberato di imporle un’ultima e definitiva sofferenza: uccidere i figli ed assaporare il gusto tremendo di vederla soffrire in modo indescrivibile di fronte ai corpi straziati e carbonizzati degli stessi». Si sarebbe quindi trattato di una vendetta, in particolare di quella che per i magistrati fu «una vendetta disumana» che «non poteva comprendere una attività suicidiaria perchè l’imputato, per assaporarla, doveva vedere la compagna in faccia per godere della sua sofferenza; e tale comportamento ha tenuto anche nel corso dell’udienza di appello, dopo un vano tentativo di sottrarsi lucidamente al giudizio, guardando la moglie ancora una volta piegata nella sua disperazione senza rimedio». Ora si è arrivati alla sentenza definitiva e se ne attendono solo le motivazioni.

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