La recensione

Con Leila sul quadrato di «Tatami»

La protagonista Arienne Mandi
La protagonista Arienne Mandi
La protagonista Arienne Mandi
La protagonista Arienne Mandi

Se «Tatami» fosse solo un film, si parlerebbe di abbinamento funzionale tra accuratezza della messa in scena e potenza espressiva. Girato in bianco e nero a Tblisi, in Georgia, nel palazzetto dello sport dove si immagina che si svolgano i campionati del mondo di judo, per «Tatami» è stato scelto il formato 4:3, quadrato come il tatami sul quale le atlete si affrontano, con i loro corpi che sbattono producendo il rumore di un botto. Le anime invece, anche quando cozzano contro ostacoli insormontabili, non fanno rumore, hanno bisogno del corpo per diventare percepibili. Se «Tatami» fosse solo un film si metterebbe in rilievo l’essenzialità e la verità nella rappresentazione di un universo femminile nel quale gli uomini sono solo guardie del corpo, medici di pronto intervento e ipocriti cospiratori. Ma il fatto è che Leila, la protagonista, nella finzione cinematografica è una campionessa iraniana e in quanto tale deve sottostare a tutti gli obblighi che la guida suprema impone alle donne, come quello di non mostrare mai i capelli. Tutte le atlete hanno sempre il capo coperto dall’hijab: Leila se lo toglierà solo quando avrà fatto una scelta radicale quanto drammatica. Ed è qui che il discorso cinematografico si colora di politica e ideologia, innestate sulla rappresentazione sfumata e indiretta ma con un forte sapore di verità del regime iraniano. La svolta si ha quando nel campionato si manifesta la possibilità che nella finale Leila incontri un’atleta israeliana: gli emissari del regime escono allo scoperto e impongono a Leila di ritirarsi. Non si fa. Oppure sì? Ma a quale prezzo? Ce lo raccontano Guy Nattiv, israeliano, e Zar Amir Ebrahimi, iraniana, uniti dall’arte oltre ogni regime. F.Bon.

Suggerimenti