La recensione

«Memory», tra verità e rispetto

È confortante sapere che il dolore, l’amore delle anime e dei corpi, l’assenza di sentimenti, l’odio, la volgarità, la memoria perduta e la memoria oltraggiata, possono essere rappresentate dal cinema con verità e rispetto. Rispetto anche del cinema stesso e delle sua intima natura. È per questo che «Memory», l’ultimo film del messicano Michel Franco, è intenso ed emozionante. È la storia eterna e infinita dell’incontro tra un uomo e una donna: due passati graffiati a sangue e nel profondo dal dolore e dalla malattia, sullo sfondo di una New York mai così autentica. E nel breve, surreale incontro iniziale, sono coinvolte anche due memorie: quella dell’uomo è sbrindellata e saltabeccante tra il passato prossimo e quello remoto, mentre quella della donna è lucida, precisa, forse troppo precisa. Alcuni ricordi escono allo scoperto, altri non ce la fanno a superare il muro di una rimozione dolorosa. Sylvia (Jessica Chastain) è guarita dalla dipendenza dall’alcool e lavora per un’associazione che assiste persone in difficoltà. Ha una figlia di 15 anni e dal modo con il quale non vuole che abbia un ragazzo si capisce che i suoi rapporti con gli uomini non sono mai stati idilliaci. A una festa un uomo le si avvicina. Lei si alza, se ne va, torna a casa: sempre seguita dallo sconosciuto che passa la notte sotto le sue finestre. Al mattino lo trova svenuto. Si chiama Saul (Peter Sarsgaard) e ha un cartellino al collo con un numero da chiamare perché è affetto da demenza. Saul non ha memoria, Sylvia invece ha troppi ricordi: un incontro tra due mondi. Reso memorabile, e capace di colpire al cuore, anche grazie a «A Whiter Shade of Pale» dei Procol Harum, la canzone preferita da Saul. F.Bon.

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