Aldo Galliano: «Nei miei ritratti gli incontri con un'umanità che è verità»

di Gian Paolo Laffranchi
Aldo Galliano: artista per vocazione, fotografo capace di cogliere l'anima nei volti dei suoi ritratti
Aldo Galliano: artista per vocazione, fotografo capace di cogliere l'anima nei volti dei suoi ritratti
Aldo Galliano: artista per vocazione, fotografo capace di cogliere l'anima nei volti dei suoi ritratti
Aldo Galliano: artista per vocazione, fotografo capace di cogliere l'anima nei volti dei suoi ritratti

Vuoi essere un bravo fotografo? Dipingi. La pittura come chiave dell’essenzialità: fissare l’attenzione, calibrare il tratto, andare dritti al punto. Aldo Galliano non è nato con la Reflex al collo. Ha trovato il suo obiettivo col tempo: una vocazione per l’umanità tradotta in ritratti, la capacità di inquadrare un volto definendone il carattere. Sono «Incontri», quelli che immortalerà a Brescia inaugurando il 2023 della fotografia in città. Brescia capitale al Macof anche grazie agli scatti di un autore incline all’ascolto e all’ampiezza d’orizzonti, più portato all’introspezione che all’autopromozione, capace come pochi di fotografare i fotografi stessi. Per questa ragione in tanti hanno accettato di sottoporsi al suo sguardo. «Sono una cinquantina di lavori - racconta l’artista di origini piemontesi, classe 1965 -. Ho ritratto personaggi italiani spaziando dai reporter ad altre forme di creatività: anche scultori, designer». Nell’elenco compaiono i nomi di Michelangelo Pistoletto e Piero Lissoni, Gian Paolo Barbieri e Giorgetto Giugiaro. Galliano ha cristallizzato l’unicità di Giovanni Gastel, Letizia Battaglia e Lisetta Carmi prima che lasciassero questo mondo. Si è dedicato ad Emilio Isgrò che fino all’8 gennaio 2023 «cancella Brixia» passando dal Parco archeologico di Brescia romana al Museo di Santa Giulia con il Chiostro rinascimentale e gli spazi espositivi, il Capitolium e il Teatro Romano, fino alla stazione metropolitana.

La sua mostra inizierà pochi giorni dopo, giusto?
Sì. Comincerò a esporre al Macof dal 14 gennaio e le opere saranno visibili in loco fino al 19 febbraio. Per me è un debutto e sono onorato: approdo a Brescia ben sapendo cos’è il Photo Festival.

Ha fotografato anche Renato Corsini, anima del Macof e del Festival.
Sono grato a Renato, felice di poter collaborare con lui e di aver conosciuto Gianni Berengo Gardin e Uliano Lucas: sono giganti di quest’arte che non può essere mai soltanto un mestiere.

Giganti che ha conosciuto e frequenta: un aneddoto?
Con Berengo Gardin. Un giorno eravamo nel suo studio a Milano e stavamo chiacchierando. A un certo punto si assenta un attimo; torna con un librone, la bibbia degli artisti. Fa scorrere le pagine con i volti di personaggi famosi che ha fotografato: «Vivo... morto... vivo... morto». Finché in una pagina compare il suo stesso volto: mi guarda e fa gli scongiuri. Se ci ripenso mi viene ancora da sorridere.

Rewind: com’è iniziata la storia d’amore con la fotografia?
In modo buffo. Cioè. La amo da sempre, ma prima mi dedicavo di più alla pittura. Una ventina d’anni fa stavo allestendo una mostra di pittori locali a Saluzzo con un collega, Davide, e l’idea era quella di filmare gli allestimenti con una telecamera. «Comprati una macchina fotografica e fai tutto con quella», mi dice.

Aveva ragione.
Difatti. Anche se comprai da lui una Canon che non faceva video. E non ho imparato a fare i video adesso, ma a fare foto sì, proprio grazie a quella macchina di seconda mano.

Chi le ha trasmesso la passione?
Onestamente, nessuno. A 14-15 anni fotografavo mia nonna in cortile, mi comprò lei una Yashica X3 e cominciai a scattare in montagna.

In casa se ne parlava?
I miei avevano una panetteria. La mia inclinazione è emersa tardi.

C’è stato un fattore scatenante?
È successo tutto quando mi sono separato. Un vecchio amico veniva a trovarmi a casa e ha visto i miei lavori, dipinti e sculture. M’ingegnavo: usavo i circuiti elettrici trovati nelle radio, li fissavo con viti e pannelli. Amo alla follia Jackson Pollock e a mo’ di dripping ci dipingevo sopra, davo luce a quelle che erano le mie città future.

Libertà creativa totale.
Ho sempre affiancato un lavoro in azienda. Avere una fonte di reddito alternativa è importante per chi fa arte: non avendo l’obbligo di fotografare per vivere, ho sempre fatto quello che mi pare.

In cima alla lista?
Ritratti per la strada. Ricordo con particolare affetto la prima mostra di questo tipo, ospitata a Cuneo da una galleria che non c’è più. Amo tutte le esposizioni che faccio, devo dire. Le vivo sempre con intensità. Ho la fortuna di aver incontrato persone che mi hanno arricchito spiritualmente. Una cosa straordinaria, possono essere 3 ore o anche pochi minuti ma comunicare con chi ha tanto dire vuol dire tutto. Ti fa diventare un artista migliore.

Fotografando per strada ha raccontato i «Senza tetto: gli invisibili».
Per un attimo con la mia fidanzata Cristina ho avuto un dubbio: crudi o ci giriamo intorno?

Crudi. 
E veri. Questa verità me la sono trovata fra le mani girando l'Italia: Roma, Milano, Bari, Palermo... Un progetto straordinario.

Il suo modello?
Mi ha sempre affascinato Gastel. Maestro della post-produzione, ha insegnato che la fotografia non è mai finita, è come un disco: le canzoni cambiano radicalmente grazie al lavoro in studio. Poi Piero Gemelli, per la sua lezione sulle luci, e Rino Barillari: ho passato un paio di giorni con lui, è un fuoriclasse.

Il segreto di uno scatto?
Il contatto umano. Sempre.

Bianco e nero a prescindere?
L'ho sempre utilizzato, ma non sono integralista.

Cos'è la fotografia?
È la mia vita. Non potrei farne a meno.

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