INTERVISTA

Eros Mauroner

di Gian Paolo Laffranchi
«Ritratti, reportage, still-life: la fotografia è maestra di vita»

Fotografo per vocazione, docente non per caso: trasmette agli studenti degli istituti di comunicazione e delle Accademie di fotografia ciò che ha imparato sul campo. Esplora la vita alla luce della sua idea di arte per immagini. Una visione nitida e disincantata del reale. Eros Mauroner studia la storia come fenomeno sociologico. Lavora la creta per non poltrire davanti alla tv. Ama scrivere, ha vinto concorsi con le sue fiabe e per Stefano Benni dovrebbe riflettere sull'opportunità di darsi alla letteratura: «Un punto d'onore, ma il mio mestiere è scattare e mi occupa 14 ore al giorno», sorride.

Il gusto dello scatto nasce da qualcosa che ha respirato in casa fin da piccolo?
Non direi, no. Mio papà lavorava alla Caffaro ed è morto presto, mia madre stava in casa e aveva una salute un po' cagionevole. Percepiva una pensione di invalidità, alla quale si aggiunse quella di mio padre mancato dopo aver lavorato per 38 anni. Una famiglia umile, con una sorella un po' più grande di me. In casa, certo, avevamo dimestichezza con i libri.

Cosa le piaceva?
Ho letto 7 volte il libro «Cuore». E poi «I ragazzi della via Pal», «Michele Strogoff», «Il dottor Zivago», «Robinson Crusoe», «Quo vadis?», «I tre moschettieri», «Vent'anni dopo»...

Dove ha studiato?
Elementari a Fiumicello, poi medie e Itis. Alle superiori mi hanno dato strumenti tecnici utili al mondo del lavoro, ma nessuna cultura dell'immagine.

Com'è arrivato alla fotografia?
Mi attirava. L'avevo anche idealizzata.

Galeotto fu...
Il primo ingresso in uno studio fotografico. La prima sensazione, strana ma forte, fu «Io questa cosa la so fare». Mi sopravvalutavo...

In prospettiva no.
Di certo mi sono dato da fare. Ho fatto per 3 mesi un lavoro intenso, seppur temporaneo, alla Ingros, guadagnando i primi soldi per potermi comperare la mia prima macchina fotografica professionale. Avevo un obiettivo. A 15 anni avevo detto a casa che volevo lasciare la scuola per lavorare nello studio di Allegri in via Pace che cercava un aiutante fisso: due sberle di mia madre furono la risposta. Rinunciai, ma andai a lavorare da Paletti in via Triumplina, con cui è rimasto un buon rapporto: conosceva la fotografia, mi ha dato negli anni suggerimenti interessanti. Più avanti mi sono messo in società con una collega per muovere i primi passi, dopodiché ho frequentato corsi specialistici in Svizzera per affinare la tecnica.

Oggi le scuole di fotografia non mancano.
Sì, io stesso insegno all'istituto Golgi e ai ragazzi mostro cose che a me non ha insegnato nessuno. Non c'erano tutorial, ai miei tempi bisognava arrivarci da soli. Oggi è molto più facile, alla portata di tutti anche grazie alla tecnologia. Io ho imparato tanto leggendo «Storia sociale della fotografia» di Ando Gilardi e sul campo sono stato anche fortunato: ho trovato un fotografo prima e un grafico pubblicitario poi che mi hanno dato le dritte giuste.

La prima caratteristica indispensabile?
L'ostinazione che a me non manca, anzi: se qualcosa non mi riesce, mi ci impegno anche 20 ore di fila fino a quando non ne vengo a capo.

Cosa preferisce fotografare?
Ho fatto cronaca, amo l'architettura e fare ritratti. Ma anche fotografare oggetti, nature morte. La Still Life fa per me e mi ha dato anche un po' di riconoscimenti. Ho fatto scatti per aziende, studi grafici, agenzie di pubblicità.

Cosa serve per eccellere in questo genere di scatti?
Bisogna affezionarsi a ciò che si sta fotografando, anche a un rubinetto o a una scarpa. Poi conta il senso dell'armonia, del buon gusto. Questo lo devo a mia madre che era un'ottima sarta, estremamente brava a scegliere gli accostamenti. Come mi correggeva, se sbagliavo a mettermi una camicia o una giacca! Anche a livello inconscio qualcosa deve essermi rimasto. E comunque si torna all'importanza di essere ostinati: mai accontentarsi del primo risultato. A me è capitato per anni di svegliarmi nel cuore della notte e precipitarmi in studio perché una foto poteva essere realizzata diversamente.

Per questo ha iniziato a esporre relativamente tardi?
Sì: al tempo della prima mostra, nel 1996, fotografavo in maniera professionale da 12 anni. Ho esposto per la prima volta nella galleria che aveva allestito Tito Alabiso, in corso Magenta. Ho deciso di fare il fotografo dopo aver letto il libro di Uliano Lucas sulla Milano degli anni '70: ora che lo conosco, glielo devo portare per farmelo autografare. Ho collaborato a lungo con Flos, inoltre, e Alberto Cavalleri mi ha dato l'opportunità di sperimentare.

Emergenti da (in)citare?
Marta Pirlo, lei è un talento da coltivare. Dai giovani però mi arrivano poche cose che non siano già viste. Poche novità vere. E sì che a Brescia c'è sempre stato fermento: mi riferisco in particolare a una figura un po' contraddittoria ma sicuramente preparata come Ken Damy, che con i suoi corsi ha formato tanti fotografi.

Ha tagliato parecchi traguardi nella sua carriera: di quale va più fiero?
Sono orgoglioso del mio lavoro sulla Strage di piazza della Loggia, che mi è valso anche qualche riconoscimento, come delle ultime mostre. Quella delle «regine», queste nonne ospiti di residenze assistite che si sono messe in gioco con ironia posando alla maniera di altrettante figure femminili senza tempo di capolavori che hanno fatto la storia dell'arte.

Riveduti e scorretti dal suo estro creativo.
Sì. E sono contento, fra le altre cose, anche della mia produzione Still Life, penso ai lavori che ho fatto a Monaco di Baviera: i tedeschi sono molto sensibili a questo genere di fotografia, che richiede tanto tempo e altrettanta testa. In Italia siamo più attenti al mondo della moda.

Cos'ha in mente per il 2022?
Ho avuto il Covid in maniera molto aggressiva, sono stato anche 15 giorni in ospedale e al mio rientro in studio ho fotografato ogni giorno gli oggetti che avevo intorno. Dovevo sublimare. Voglio esporre queste foto. Inoltre, voglio ridare spazio alla mostra che dovevo inaugurare nel marzo del 2020 al Macof quando il lockdown ha bloccato tutto. L'abbiamo aperta nel giugno scorso, quando si è sbloccato tutto, «Piccoli oltraggi a grandi opere». Ma il suo titolo vero è «La fine delle cose», un'opera di tipo concettuale: per esempio traendo spunto dalla «Madonna della melagrana» di Botticelli ho preso un melograno, l'ho rotto e l'ho fotografato. Ho messo al centro dei miei scatti elementi caratteristici di capolavori, rompendoli. Idea che si ricollega alle nonne trasformate in regine: la realtà che dialoga con l'arte classica.

Cos'è la fotografia?
È una presa di possesso. Una forma di conoscenza intima delle persone, delle cose, del mondo che ci circonda. La fotografia è maestra di vita.

Suggerimenti