INTERVISTA

Gianluca Motta, storia di un top dj «Il mio sogno: far ballare il mondo»

di Gian Paolo Laffranchi
«Da sempre il mio desiderio è far ballare tutto il mondo»
Gianluca Motta: nato a Brescia il 23 aprile 1974, segno zodiacale Toro, top dj dalla carriera trentennale
Gianluca Motta: nato a Brescia il 23 aprile 1974, segno zodiacale Toro, top dj dalla carriera trentennale
Gianluca Motta: nato a Brescia il 23 aprile 1974, segno zodiacale Toro, top dj dalla carriera trentennale
Gianluca Motta: nato a Brescia il 23 aprile 1974, segno zodiacale Toro, top dj dalla carriera trentennale

«Musica da ballo moderna». Questo fa Gianluca Motta, che ha studiato la storia della disco e sa quanto l'esperienza sia fatta non solo di serate nei club ma anche di ripetuti reiterati ascolti. Di passione assidua, impegno costante e «se poi hai un orecchio quasi assoluto»... Tanto meglio. Andando a orecchio, il 47enne top dj bresciano ha girato il mondo. Stati Uniti e Canada, Bulgaria e Malta, Germania, Polonia e Spagna. Da Milano a Miami, fedele alla linea di un'idea di suono che spazia dalla discomusic all'elettronica. Le sue produzioni sono entrate nei set di Morales e Tiesto, Van Buuren e Sanchez. È stato remixato da Deadmau5, altro gigante, mentre remixando a sua volta «Mamma mia» con la voce di Ivana Gatti ha fatto ballare gli Abba in un Circus imballato con Elenoire Casalegno regina del dancefloor. La sua «Shining star», poi, ha riempito le piste del globo facendolo conoscere ovunque.

Gianluca Motta orgoglio bresciano e stella tricolore della nightlife. Ma può esistere ancora una nightlife dopo la pandemia? Quanto tempo servirà alla notte per ripopolarsi?
È stato un periodo durissimo, il lockdown. Per tutti e in particolare per chi fa musica. Anch'io sono andato in crisi, finché non mi ha scritto un ragazzino dal Portogallo. Tredici anni: «Ciao, tu sei mio papà». Ero a dir poco spiazzato... Ma mi ha spiegato: «Mia mamma incinta ha attraversato un periodo difficile e per risollevarsi il morale ascoltava la tua Not Alone. Per questo mi ha chiamato Gianluca: come te». Ogni volta che ci ripenso, ho i brividi.

Potere della musica. Nella sua vita da sempre?
Certo. Merito dei miei genitori: papà vice comandante dei vigili e mamma maestra elementare, ma entrambi sessantottini, mi hanno cresciuto con «Born to be wild», Aretha Franklin e la Motown: non ascoltavo Nikka Costa come i miei compagni, che a scuola per questo mi ghettizzavano un po'.

Dov'è cresciuto?
Quartiere Don Bosco, con un fratello minore, Roberto che adesso ha 36 anni. Un bel carattere, in una serata ha convinto Steve Aoki a tirargli una torta in faccia. Appassionato anche lui. Io ho sempre pensato alla musica come condivisione, finalizzata al divertimento della gente. Ho sempre voluto far ballare il mondo. Non ho mai posseduto una consolle: ho imparato sul campo, nei locali.

Prima serata?
A 12 anni, con 45 giri neanche amplificati. La mia fortuna è che sento le tonalità, fin dalle prime volte a casa di un mio amico che aveva il mixer mettevo i dischi a tempo perfettamente.

Nato per fare questo.
Sicuramente. A 16 anni ho fatto un set alle Cavrelle, in Maddalena, e la sala era strapiena di gente che ballava. Mi ha chiamato il Paradiso e non mi sono più fermato. Pier Feroldi, il direttore artistico, mi ha fatto un favore affidandomi la domenica pomeriggio: «Se vuoi suonare i dischi nuovi prima devi saper far ballare il revival». Mi son detto «perché no?» Lo devo ringraziare, la mia cultura musicale deriva da lì.

Il suo stile è improntato all'apertura fra i generi: fra i ritmi techno trovano posto i Queen e la Cavalcata delle Valchirie.
Per me non c'è altro modo: non distinguo la dance dalla non-dance, c'è la musica bella e quella da evitare. E guai a fossilizzarsi.

Dj preferito?
Ralf. Potrà sbagliare i mixaggi, ma capisce la gente e sa farla felice. La tecnica di per sé serve a nulla. Un dj deve essere psicologo. Lavorare con la testa, con il cuore.

C'è qualche virtuoso della consolle che stima particolarmente?
Erick Morillo. Inventiva incredibile. E Deadmau5: sono orgoglioso di aver collaborato con lui.

Il pezzo di cui va più fiero?
Beh, «Shining star».

Il segreto di un sound vincente?
«Less is more». Bisogna togliere, asciugare. Lo sanno bene batteristi come Ringo Starr, campionatissimo non a caso, e Roger Taylor, una macchina da hit. E se metto una canzone apparentemente semplice come «Where the streets have no name» degli U2 davanti a 5 mila persone la cantano tutti, sempre.

Com'è cambiato il pubblico negli anni?
Cambia di continuo, ma i concetti-chiave restano gli stessi: guardati intorno, studia il contesto. L'aspetto psicologico è fondamentale. E mai giocarsi i pezzi forti subito.

Il posto più bello in cui ha suonato?
È un privilegio, aver fatto serate praticamente ovunque. Se devo scegliere dico Edmonton, in Canada. Una città universitaria, stimolante: credo che l'abitante più anziano avesse 50 anni. Ho potuto esibirmi in un cartellone allucinante.

Chi c'era con lei?
Benny Benassi, Axwell, Steve Angello. E Avicii, con cui ho avuto modo di parlare a lungo.

Uno dei più grandi, morto all'apice della fama togliendosi la vita a nemmeno trent'anni. Il successo può fare male?
Non è facile convivere con una simile pressione, per chi non c'è portato.

La differenza che passa fra Freddie Mercury, che adorava l'impatto di una grande folla, e Kurt Cobain, che invece non ne reggeva il peso?
Sì. Ho sentito parlare tanto di droga, per spiegare la morte di Avicii, ma è un luogo comune da sfatare: le discoteche non sono il regno dei drogati, anzi è molto più facile trovarne al bar sotto casa, su un autobus, a scuola o in ufficio. La verità è che Avicii combatteva un'ansia sociale enorme. Ne era sopraffatto. Il suo ideale di serata era chiudersi in albergo per tutto il giorno e dormire in una stanza con le tapparelle giù: così mi aveva detto. Avicii aveva un incredibile talento, ma viveva un profondo disagio.

Ha giocato a basket con Nicola Minessi da ragazzo. La passione per i canestri è rimasta?
Assolutamente. Ho praticato e sono un patito, tifoso della Germani.

I suoi giocatori preferiti?
In questi anni bresciani dico Marcus Landry, eccezionale. E i fratelli Vitali.

Nella Nba?
Tifo per Davide contro Golia: Stephen Curry è tanto più basso dei suoi giganteschi avversari, ma li sconfigge con la classe. Mai inchinarsi, mai partire battuti.

Tifoso anche del Brescia?
Certo. Sono stato lo speaker dello stadio Rigamonti quando me lo chiese Fabio Corioni. Mi disse «Gianluca non pensavamo di farlo... Ma abbiamo preso Roberto Baggio». Un sogno per noi che tifavamo e respiravamo il Brescia. Poi, incredibile!, un giorno Baggio mi ha citofonato con il suo preparatore Enrique Miguel per portare a cena me e mio fratello. Quando suonavo al Mirò e giocavo a calcetto per un torneo fra discoteche arruolammo i gemelli Filippini come baristi e Pirlo ogni tanto faceva il portiere volante. Ma è il mondo dei dj che azzera le distanze: per esempio a Milano Marittima sono diventato amico di Cesare Cremonini, tanto che faceva anche il vocalist con me qualche volta.

La musica che unisce. Dove la porterà? Dove le piacerebbe salire sul palco, nel mondo?
Dico sempre Central Park.

New York, New York...
Perché no?

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