INTERVISTA DELLA DOMENICA

Giovanna Magri

di Gian Paolo Laffranchi
"Fotografia, la mia filosofia di vita. Un viaggio nella città dell'anima"
Opere di Giovanna Magri

La natura non è altro da noi: è nutrimento reciproco, radice e prospettiva, unità e profondità. La natura è una necessità: così dobbiamo percepirla se vogliamo salvarla. E salvarci. «Nature need», titolo logico e programmatico scelto da Giovanna Magri per la sua mostra - visitabile al Mo.Ca fino al 17 maggio nella sezione «Fotografia bresciana», con la benedizione e il marchio del Ma.Co.f - è un piano di battaglia pacifista intriso d’amore e passione per il nostro pianeta. Un piano volto alla tutela dell’ambiente dal rischio del riscaldamento globale, fenomeno (non l’unico, certo) che ci chiama tutti a difendere il posto in cui siamo nati. «Seguo da anni il suo lavoro - dice il direttore artistico del Centro della Fotografia Italiana, Renato Corsini -. Lontano dalla banalità e dagli stereotipi, i suoi scatti diventano istanza sociale e avventura creativa del pensiero. Di fronte alle sue opere è difficile non farsi delle domande pur conoscendone le risposte». Che sono certezze, seppur dolorose: tocca ai giovani proteggere il mondo debole ricevuto in eredità, ma la loro lotta richiede l’aiuto di tutti, dunque «Giovanna fa la sua parte e non si tira indietro». Per la curatrice del catalogo della mostra, Gigliola Foschi, l’autrice «ha realizzato immagini simili ad antichi riti sacri, capaci di evocare e creare un contatto d’amore tra gli uomini e la natura». I quattro elementi essenziali, acqua, aria, terra e fuoco, fissati su Polaroid attraverso una nuda rappresentazione contemporanea che colpisce e fa riflettere.

«Dove il corpo di una nuova generazione è in ascolto e in connessione con la natura»: qui ci vuole portare, nella città dell’anima per citare una sua dichiarazione d’intenti: «Un viaggio nell’infinito mistero che è l’uomo». Il reportage definitivo?
Mi è sempre piaciuta l’idea del reportage. Anche trattando di fatti estremi. È stato importante il percorso compiuto in carcere.

Un fronte anche questo, no?
Sì. Lavorare con i detenuti è molto significativo.

Il ritratto, la sua specialità, nelle sue opere è una questione estetica molto relativamente.
Difatti il mio è un lavoro essenzialmente sociologico, antropologico. Prima di tradursi in una foto richiede anni di ricerche, anche 3-4. Ai miei progetti servono tempo e approfondimento per essere sviluppati al meglio. Voglio privilegiare il contenuto.

Oggi tutti hanno fretta.
E le gallerie non a caso mi rimproverano: «Giovanna, tu produci poco». Io non riesco, non ce la faccio: prima di agire devo decidere cosa fare, come farlo; poi devo studiare, a fondo. Voglio soddisfare il pubblico a cominciare da me: se non amo quello che sto facendo non posso andare avanti.

L’immagine come racconto.
Per veicolare il messaggio. Prima viene l’immagine, poi la scrittura. Il mio soggetto non è mai un oggetto, dev’essere collaborante: per questo cerco soggetti affini, voglio una condivisione.

Il suo ultimo lavoro è rivolto ai giovani, attraverso i giovani.
Insegno in Laba e so bene che i ragazzi oggi devono combattere il doppio, il triplo di quanto è toccato a noi per non farsi omologare. Oggi per emergere devi fare la differenza e allora dico: sii te stesso fino in fondo. La concretezza alla fine emerge, con più fatica ma emerge sempre e allora spicca la firma, c’è un’autorialità. La nuova generazione è forte di risorse fresche: ci sono belle testoline, tanti giovani coraggiosi che spesso conducono una vita semplice, ecologica, guardano al domani e perciò proteggono il pianeta.

Per questi ritratti ha usato un lento banco ottico e un doppio scatto dello stesso ritratto che così appare come sdoppiato sulla stessa lastra. Lo sguardo della Madre Terra sembra sottolineare un’urgenza ed esigere una missione. Crede che i giovani possano compierla?
Sì. Loro possono fare la differenza.

Si divide fra le lezioni che tiene in città e il suo studio a Villanuova sul Clisi. Cosa sognava di fare da grande?
Nata a Gargnano, ho studiato a Salò e intorno ai 15, 16 anni mi sono appassionata alla fotografia. Da piccola non amavo giocare con le bambine che conoscevo perché non avevo affatto l’attitudine al pettegolezzo e preferivo fare le battaglie con i bambini, che mi parevano più sinceri. È il mio carattere, il mio modo di essere.

Cos’è per lei la fotografia?
Banalmente, il mezzo con cui posso esprimermi. Ma per me la fotografia è soprattutto un sentimento. E una pluralità di visioni. La storia della fotografia è una rappresentazione della realtà: non è mai la verità assoluta, ma un’interpretazione delle sue mille sfaccettature. La sedia ha una sua forma, ma se la fotografo la rappresento come la vedo io. La fotografia è una filosofia di vita. Sa andare oltre l’Oltre.

A chi si è ispirata?
Ho attinto dalla pittura anche più che dalla fotografia. Citerei fra gli altri Mapplethorpe e Penn come Velázquez, Caravaggio, Duchamp e Lotto, forse fra i primi a fare il triplo ritratto laddove Tiziano usava lo specchio nella diatriba con il mondo scultura su quali arti potessero ritrarre una persona a tutto tondo. Diamo atto a chi seppe andare oltre i luoghi comuni che penalizzavano la pittura.

Di sicuro è già su altro, sta già studiando altre cose. Ma se ripensa alle opere che ha messo in mostra al Mo.Ca?
Ho voluto toccare un tema che riguarda tutti, la necessità di trovare nuovi equilibri per salvare la terra. Quanto ai giovani che ho scelto, la selezione non è stata semplice: dovevano essere attivi, aver assimilato il progetto, spogliarsi della contemporaneità, dei suoi ritmi che contaminano nella quotidianità. Questi giovani sono in connessione con la natura, la ascoltano, la sentono.

Profili, frontali e un’immagine che si distingue.
L’allegoria di Madre Terra, di cui parlavamo prima. Vuole dirci che le risorse non sono infinite. C’è un’etica fondamentale da seguire, per il bene del nostro pianeta. Dobbiamo restituire a colei che ci ha generato la vitalità che le è stata tolta nei millenni attraverso il nostro agire.

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