INTERVISTA

Luigi Mahony

di Gian Paolo Laffranchi
«Con i giovani, col territorio: così il Ctb va verso il futuro»
Alla presentazione alla stampa sul palco del Teatro Sociale di «Viaggio teatrale nell’universo femminile»Nato a Bergamo il 26 giugno 1944, Luigi Mahony è nel Cda del Ctb
Alla presentazione alla stampa sul palco del Teatro Sociale di «Viaggio teatrale nell’universo femminile»Nato a Bergamo il 26 giugno 1944, Luigi Mahony è nel Cda del Ctb
Alla presentazione alla stampa sul palco del Teatro Sociale di «Viaggio teatrale nell’universo femminile»Nato a Bergamo il 26 giugno 1944, Luigi Mahony è nel Cda del Ctb
Alla presentazione alla stampa sul palco del Teatro Sociale di «Viaggio teatrale nell’universo femminile»Nato a Bergamo il 26 giugno 1944, Luigi Mahony è nel Cda del Ctb

Ha visto cambiare il mondo. Oggi è un posto tanto diverso da quello che immaginavano i ragazzi come lui, cinquant’anni fa. Ma non è forse così tutta la storia dell’umanità? E così un po’ anche la vita, in generale. Ne ha viste tante, Luigi Mahony. L’insegnamento, la politica, il teatro: un impegno che dura tuttora. Fa parte del Consiglio di amministrazione del Ctb, il Centro Teatrale Bresciano di cui è stato anche a lungo il presidente. A lungo perché Mahony è fedele a una linea, la sua, che si rispecchia su tutti i fronti del suo agire: si applica, ambisce e approfondisce. Abitudine non troppo diffusa che richiede acume e abnegazione, pazienza e progettualità.

Professor Mahony, poteva andare diversamente? Ha seguito una strada tracciata dai familiari?
I genitori facevano mestieri diversi dal mio. Mia mamma Anna procuratrice d’azienda, impiegata; mio padre Bruno allenatore di una squadra di atletica, la Libertas di Bergamo. Dove sono nato.

Lei, bresciano, nato a Bergamo: per il lavoro del padre?
Sì. Ma la mia vita di fatto è stata a Brescia. Non sono figlio unico: avevo una sorella, Fernanda, che purtroppo è appena mancata. Un dolore grande.

Com’era da ragazzo?
Direi nella norma: uno come tanti.

Hobby?
I francobolli. Oggi a dirlo ci si sente originali, ma allora era un gioco diffuso, diffusissimo tra gli studenti.

Elementari, medie, superiori e la scelta dell’università: sociologia.
A Trento, sì. Era l’unica di quel genere allora. Fra giovani si cercava un’operatività politica.

Volevate cambiare il mondo. Se guarda i giovani d’oggi?
Trovo che siano un po’ meno maturi e appassionati. Adesso sono più canalizzati, nei loro interessi.

Quarant’anni in cattedra da professore di storia e filosofia.
Tre anni al liceo classico Arnaldo, 37 al liceo scientifico Calini.

La differenza più marcata fra i diciottenni di allora e di adesso?
La nostra prima ambizione era uscire di casa. Ora mi paiono ben contenti di starsene placidamente in famiglia. A diciott’anni o a trenta poco importa: va bene lo stesso. C’è un clima mammistico.

Quanto influisce un contesto che complica la vita alle nuove leve che si affacciano al mondo del lavoro, costringendole ad emigrare in paesi che invece offrono più possibilità ai giovani?
Sicuramente le cose sono anche collegate. Questa è la situazione attuale, questi sono i fatti. Dobbiamo prenderne atto.

Prima del teatro c’è stata la politica, che nei ’70 nel bene e nel male per uno studente era come i social oggi: pressoché inevitabile.
Avevo vent’anni quando ho iniziato a interessarmene, gravitando fin da subito nell’universo di sinistra. Una sinistra extraparlamentare, che vedeva nel Pci il suo contraltare. L’idea era quella di creare un’alternativa, una via nuova e differente. Adesso purtroppo registro un pensiero qualunquistico diffuso. È un menefreghismo nemmeno rispetto a qualcosa: menefreghismo in sé.

Dal 1980 al 1990 è stato consigliere provinciale dopo essere stato responsabile della scuola e dell’università per il Pci.
Sì, nel Pci: mi sono cimentato.

Per provare a cambiare il mondo dall’interno. Un’iniziativa che ricorda con orgoglio particolare?
Ho organizzato per anni il centro culturale del partito, il centro Togliatti. Tenevamo anche grandi conferenze: non posso dimenticare quando per la presentazione di un’opera di Alberto Asor Rosa riempirono due aule della Facoltà di Medicina.

All’epoca seguiva già il teatro?
Sempre seguito: mi ha sempre interessato.

Come definirebbe i suoi gusti teatrali?
Sono sempre stato votato più all’arte legata all’impegno, più alla contemporaneità che alla classicità, a un concetto di modernizzazione. Sempre stato brechtiano.

Un autore in cui si riconosce?
Ho sempre amato Pirandello. La sua versatilità, l’originalità, la forza.

Un grande nome che non ama, invece?
Non riesco ad entusiasmarmi per Goldoni. Ma difficilmente può farlo chi ama il teatro di Pirandello.

Per il Centro Teatrale Bresciano si è speso in modi diversi.
Sì, sono stato nell’assemblea, sono stato e sono membro del Consiglio di amministrazione, sono stato presidente del Ctb dal 1997 al 2005.

Ha dunque partecipato alla costante evoluzione del teatro che vent’anni pareva destinato a soccombere rispetto alla televisione, mentre adesso gode di salute decisamente migliore.
Il teatro si evolve, per fortuna, e così il Ctb, che sta vivendo la sua quarantottesima stagione ed è uno Stabile: non è tanto un luogo fisico che ospita, è una realtà attiva che produce. Siamo gli unici a tenere un certo tipo di collegamento con le realtà più piccole disseminate sul territorio, cercando di accorpare, di unire. I primi tentativi in questa direzione risalgono alla fine degli anni ’90.

La direzione del Ctb dal 2015 è affidata a Gian Mario Bandera. Nel frattempo c’è stata la pandemia a rendere tutto tremendamente difficile. Come giudica il bilancio di questi ultimi anni?
Va sicuramente fatta una riflessione sul direttore. Una consuetudine diffusa, fra i teatri Stabili, è dare la direzione a un grande regista. Brescia è in controtendenza e i fatti dicono che la scelta è stata giusta: la gestione di Bandera ha dato risultati importanti. I numeri parlano chiaro e ripagano la dedizione totale alla causa del nostro direttore. Sempre sul pezzo, tutti i giorni. Il suo lavoro è proteso verso il futuro, a maggior ragione in un quadro di deterioramento economico che stimola ma onestamente rende anche tutto più difficile. Cerchiamo di valorizzare il territorio e nel contempo le giovani leve che abbiamo: fortunatamente a teatro il nuovo che avanza convince e funziona. Sangati, Capra... Grande cosa averli con noi: sono molto bravi e, voglio sottolinearlo, altrettanto colti.

I club e anche i cinema completano l’offerta dei loro spettacoli con aree ristoro, bar e affini. Il teatro non potrebbe ricavare risorse anche così, magari con una sala da tè che invitasse lo spettatore a non andare a bere qualcosa altrove a fine rappresentazione?
Tenere il pubblico anche dopo: in Germania già si fa. Ne abbiamo parlato ai tempi della direzione di Cesare Lievi. Può essere un’idea.

Lo spettacolo del Ctb che aspetta con maggiore curiosità?
«Caduto fuori dal tempo», in cartellone fra un mese al Teatro Sociale, da un testo di David Grossman. Sarà bello vederlo sul nostro palcoscenico.

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