INTERVISTA

Marco Senaldi

«2023, l'anno del metaverso Brescia? Come la California»

Brescia 2023, Capitale della Cultura. «È un momento straordinario, uno scatto di crescita dopo la pandemia: la voglia di andare avanti che si avverte nella gente, soprattutto qui e adesso. Un momento che non durerà tanto e da sfruttare al meglio, in una città che aveva vocazione industriale ma che insieme a Bergamo crede sempre più nel suo patrimonio storico e artistico anche in termini economici. E questo è anche l’anno dell’intelligenza artificiale, del metaverso». Gli occhi di Marco Senaldi, neo direttore artistico della Libera Accademia Belle Arti di Brescia, si illuminano: «L’ho provato, il metaverso».

Sensazione?
Mi sono sentito come se fossi nel 1895 a Parigi e vedessi un treno entrare in stazione. Qualcosa di così avanti sul piano tecnologico da far quasi spavento. Mi piacerebbe fare qualcosa di veramente nuovo, con i ragazzi della Laba.

Che definizione darebbe di metaverso?
Uno spazio in cui si possono realizzare progetti irrealizzabili, ma pensati da mente umana. Come, per esempio, quelli lasciati in sospeso da Piero Manzoni. Noi abbiamo questa fantastica possibilità. Non significa raddoppiare l’universo reale, ma poter partire dalla nostra immaginazione per creare una stanza che vola in cui sto io, piccolo come una formica.

Da piccolo, a 6 anni, cos’avrebbe risposto a chi le avesse posto la fatidica domanda «Cosa farai da grande»?
A 6 anni, ma proprio a 6, ricordo bene com’ero. Negli anni ’60 in Italia c’era una marca di sigarette poi sparita, Kent. A me ricordava Kant.

Il filosofo. A 6 anni?
Sì: non lo conoscevo, ma avevo sorelle che al liceo studiavano filosofia, per me la materia più misteriosa. Italiano o matematica potevo capire, ma filosofia... Domandai allora se quello delle sigarette fosse il famoso filosofo. Mi risposero di no e mi sarei potuto fermare lì.

Invece?
Invece chiesi cosa diceva, quel Kant. E mi spiegarono l’imperativo categorico: «Quando tu decidi di compiere un’azione dovresti prima porti il problema di cosa succederebbe se tutti agissero come te». In quel momento decisi che avrei fatto il filosofo.

Aveva un piano B?
Un A2, direi: non riuscivo a staccarmi dall’arte. Che per me era Picasso.

Aveva le idee molto chiare, per essere un bambino.
Ho fatto tutto al rovescio: da piccolo ero molto serio, anzi serissimo e studiavo Kant; adesso sono più zuzzurellone. Ho figli adolescenti e li capisco. Amo i videogiochi, il metaverso stesso per me è un po’ un videogame.

Jouer è il senso della vita, no?
Sì, nel mio caso anche per compensare il fatto che da bambino non giocavo tanto. A 14 anni, iniziate le superiori, ho fondato la mia prima casa editrice di poesia sperimentale. Frequentavo il liceo classico. Amici miei coetanei mi parlarono di poeti che vivevano in un mulino in provincia di Parma, Giulia Nicolai e Adriano Spatola, che avevano fatto parte del Gruppo 63. «Andiamo a trovarli»: siamo andati, con l’autostop. Ci si è aperto un mondo. Erano al centro di una grande rete di relazioni che comprendeva Fluxus, la mail art. Conosciuti a 14 anni, tornai a trovarli a 16: «Perché non scrivi un commento su questo libretto?». Fu così che scrissi la mia prima recensione da critico d’arte.

Emanuele Severino, uno dei più grandi pensatori del Novecento, era anche musicista. Il filosofo è sempre anche un po’ artista?
Severino era una figura di caratura mondiale, eppure di una semplicità e di un’empatia davvero rare. Un’equivalenza non credo ci sia; è raro trovare un filosofo competente nelle arti visive del suo tempo. Chi nasce filosofo di solito ha una sensibilità diversa rispetto alla contemporaneità. Anche se oggi l’arte contemporanea sta diventando più pop, decisamente, e questo sposta un po’ le coordinate. Un filosofo, riflessivo per definizione, sta più nell’assoluto. Hegel comunque diceva che «solo il presente è fresco». Diceva anche che la preghiera del mattino è stata sostituita dalla lettura del giornale»: il nuovo rito, il nuovo paesaggio. Si è filosofi, ma bisogna pur sempre vivere nel proprio tempo.

Lei aveva le idee chiare da subito. Ma se avesse incontrato insegnanti scadenti oggi saremmo qui a fare quest’intervista? 
Il rapporto con i docenti è sempre delicato, soprattutto negli anni del liceo. Possono aprirti una finestra oppure chiudertela. Io ho insegnato tanto e ho cercato di aprire prospettive. Ma la spinta viene sempre da dentro. Io non ho avuto maestri in gioventù. L'ho trovato più tardi in Slavoj Zizek, luminare sloveno che ho portato in Italia.

Una tappa importante del suo percorso?
Sì. Lavoravo per il Comune di Milano, negli anni '90. Lo invitai allora e l'ho reinvitato altre volte in seguito. Un personaggio che non ha pause, anche finita la conferenza non si spegne mai. Non è italiano, non è conviviale: durante le cene spariva.

Altri momenti cruciali nella carriera?
Il periodo televisivo, fra i '90 e gli anni zero. Anche lì mi si è aperto un mondo. Non ero nato per fare quello, ma era un linguaggio avanzato allora come oggi può essere il metaverso. Io facevo l'autore e la tv è molto scritta oltre che visiva: univa i miei orizzonti. Ci siamo divertiti molto, per esempio portando Gene Gnocchi con la nonna a raccontare la Biennale di Venezia.

«Questa è arte povera, nonna... E tu sai cos'è la povertà». Comicità surreale, quasi montypythoniana.
Sì. Ci divertivamo tanto.

Come si è materializzato l'approdo alla Laba?
Ho insegnato in tanti posti, dalla Carrara di Bergamo a Iulm, Bicocca e Brera a Milano. Grazie ad un amico, Diego Ruggeri, che aveva condiviso con me l'esperienza della Carrara, sono venuto qua da docente. Quando si è creata l'opportunità di una direzione artistica ho detto subito sì, ma non mi aspettavo sinceramente di ritrovarmi in un territorio così dinamico. Ogni tanto con Valerio Borgonuovo, il direttore, ci diciamo «Qui è come stare all'estero... Qui a Brescia ci sono i californiani d'Italia». Lo dico perché vedo molte realtà stanche e ferme, invece.

Quando ha del tempo libero si ferma mai?
Torno sempre lì, alla lettura: vorrei leggere i libri che non ho letto. Cammino molto, amo la montagna. E dedicarmi ad Hegel.

Oggi chi è Marco Senaldi?
Noi oggi dobbiamo ripensare il concetto stesso di esistenza. Vorrei scrivere un grande trattato di in-esistenzialismo. Siamo dividui, non più in-dividui, divisi nella scissione fra quello che facciamo, come siamo e la nostra immagine. Chi sono... Penso di essere pirandelliano: un ibrido. Non sono una cosa sola. Ma è una sensazione abbastanza comune. Credo..

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