INTERVISTA

Matteo Delai

«Sul Garda realizzo il mio sogno di un cinema che è condivisione»

Prima coltivi, poi cucini. Non è indispensabile saper fare entrambe le cose, ma vuoi mettere la soddisfazione? Così è (può essere) anche il cinema. Una tavola imbandita che Matteo Delai ama curare in ogni aspetto: regista pluripremiato, organizzatore di rassegne. Crea e condivide. Mettere la cultura in circolo è la scelta di vita che l’ha portato a sdoppiare gli eventi promossi sul Garda: dal Desenzano Film Festival (fondato nel 2019 attraverso Associazione Culturale Sinergetica) al Cine-ma Corto Moniga, che quest’oggi vivrà la serata rinviata martedì per il maltempo (il 2 e il 9 agosto quelle successive, a completare un trittico). «Non ce la siamo sentita di alzare il telo, con un vento così forte: ci riproviamo oggi», sorride l’artista gardesano. Orgoglioso di quanto questo lago stia diventando un punto di riferimento per chi ama l’arte di fare film.

In pochi anni a Desenzano ha coinvolto registi quali Franco Piavoli, Stefano Cipani e Giancarlo Soldi ma anche Ondina Quadri, attrice che ha vinto il Globo d’oro nel 2016. E via via professionisti del settore, dalla produzione alla direzione della fotografia. L’idea di Moniga nasce da questo crescendo?
L’obiettivo è duplice: portare al pubblico del lago una visione sul cinema d’autore internazionale; creare un hub fra appassionati di cinema e professionisti del settore. Moniga è una costola che vuole provare a superare il classico periodo festivaliero dei cortometraggi. La filiera prevede che un corto si giri, approdi ai festival e arrivi presto on-demand senza passare dalle sale. Un’apposita rassegna può garantire una visione anche su grande schermo per tre serate estive nella cornice del Castello di Moniga.

Un modo anche di dribblare il rischio-dimenticatoio per opere che hanno pochi canali a disposizione?
Sì. Quello è il rischio dei cortometraggi che hanno finito il loro percorso festivaliero. L’idea è di creare un percorso successivo in cui i corti possano tornare sul grande schermo attraverso momenti di condivisione sociale e collettiva. L’arte è un’espressione individuale, ma la fruizione si arricchisce nell’incontro con il pubblico e grazie al suo sguardo critico.

Ci sono tanti film e tante serie, ma pochi corti.
Esatto. Per questo bisognava creare uno spazio di dialogo specifico. L’intento è anche sostenere il cinema indipendente. Per questo consegneremo un gettone di presenza a tutti gli autori in proiezione.

I cortometraggi subiscono la stessa discriminazione che in Italia tocca ai racconti, genere considerato minore dai più rispetto al romanzo? Nell’atletica non capita che la lunga distanza sia considerata più nobile della breve: anche in campo letterario dovrebbe contare solo la qualità, non la quantità di pagine e righe.
Assolutamente d’accordo. Non mi piace pensare a un corto come a un semplice esercizio di stile. Un nostro giurato illustre, Franco Piavoli, un giorno disse: «Se il lungometraggio è paragonabile al romanzo, il corto è poesia». In pochi attimi devi saper tratteggiare immagini e atmosfera. Un film sviluppa temi e trae conclusioni autoriali; il cortometraggio fa sentire tutta la potenza di una domanda.

Pirandello scrisse anche Novelle, Leopardi le Operette Morali.
E se io penso a un corto, penso a Buñuel. Si può funzionare anche risultando incisivi: succede quando l’anima vibra per domande nuove.

Da quanto tempo vibra la sua passione per il cinema? Per essere un trentenne ha già percorso tanta strada e ha saputo farlo in salita: orfano di padre a 6 anni, costretto a lottare con una grave malattia in gioventù.
Proprio in tempo di malattia ho deciso di dedicarmi al cinema. Da ragazzo ho fatto studi di ragioneria e programmazione informatica al Battisti di Salò, essendo io di Manerba, e amavo i film ma pensavo che il cinema si potesse solo guardare, non fare. Quando mi sono ritrovato confinato in una stanza di ospedale, fra quelle 4 mura ho trovato una finestra sul mondo che mi permetteva di viaggiare e sognare. Pensavo di avere 2 anni di tempo, 3 al massimo, e mi son detto: «Faccio solo quello che mi va».

Quindi?
Sono andato a Roma e mi sono laureato in Arte Cinematografica alla University of Fine Arts. Dopodiché ho sostenuto un periodo di ricerca a Gent, in Belgio, al KASK–School of Arts. Ho scoperto un mondo, mille modi di fare cinema: industriale, indipendente, commerciale, alternativo. Ognuno può trovare il suo. 

Non ha perso tempo: nel 2015 la prima opera in co-regìa, il documentario «All'armi siam registi!»; nel 2016 la vittoria del premio Adelio Ferrero; nel 2017 «Il cane», opera prima in cui esplora le difficoltà di un giovane malato grave, premio del pubblico a Londra al Westminster Film Festival e miglior corto al Mindie - Miami Indipendent Film Festival. Poi il documentario «Bongiur» fra Italia e Belgio, il lavoro da assistente alla regia per «Nico, 1988» di Susanna Nicchiarelli, la regìa da ghost-director del cortometraggio «Voce» in cui ha diretto Alessandro Haber...
È così: visto che di base non morivo... Ho voluto trovare un modo per portare avanti questa passione nel miglior modo possibile. Non solo da regista. Ho provato a riportarla sul lago coinvolgendo professionisti del settore. Volevo, e voglio, mostrare cos'altro può essere il cinema, al giorno d'oggi.

Un altro modo di fruirne, decisamente, rispetto alla multisala ma anche all'home.
Io amo il cinema in ogni sua forma. I premi in generale mi mettono a disagio, soprattutto quando li vinco anche se mi fa piacere naturalmente, ma amo creare connessioni con il pubblico: è questa l'energia che regala una rassegna. Registi che stimo, spettatori interessati: due lati della stessa medaglia che si arricchiscono a vicenda. Vederlo accadere, renderlo possibile, mi emoziona ed entusiasma.

Cos'è il cinema?
Rischiare di trovare domande mai fatte. Ogni filmato è cinema se chi lo fa rischia a livello intimo, al punto che il suo racconto diventa universale. Un dramma personale che appartiene a tutti. Carmelo Bene diceva che i panni sporchi si lavano in piazza. Aveva ragione. Si riferiva al teatro, vale anche per il cinema.

Cinema a parte, cosa le piace fare?
Organizzare eventi.... Non solo di cinema: con Associazione Culturale Sinergetica ci siamo occupati anche di pittura e fotografia. Mi piace aggregare, la condivisione che si crea fra punti di vista che si incontrano e discutono.

Il suo maestro?
Ne ho avuti diversi. Susanna Nicchiarelli, mia professoressa e relatrice di tesi, mi ha aperto un mondo sull'arte di dirigere gli attori. Cecilia Mangini, la prima documentarista italiana, mi ha insegnato l'energia che si può avere a 90 anni quando si è convinti delle proprie idee. E Franco Piavoli: con il suo cinema ho scoperto la poesia dell'immagine. Un privilegio averlo come giurato al Film Festival.

Il film della vita?
«The dreamers» di Bernardo Bertolucci. Ma non posso non citare Fellini.

Come sta il cinema, oggi?
È un'arte ancora molto giovane. Le videocamere sono nelle mani di tante persone, i costi di produzione si sono abbassati, si può creare anche spendendo poco. Gli orizzonti sono ancora incredibilmente ampi.

E c'è ancora spazio per l'originalità: il suo ultimo progetto, la «Ballata dei miseri», racconta le vicende di un gruppo di circensi che hanno scelto di vendere le proprie emotività rappresentando ogni notte il vero matrimonio fra due membri della compagnia, svuotandone così il valore sentimentale pur di guadagnare qualcosa.
Sì. Ho collaborato a stretto contatto con diversi emergenti e l'artista camuno Stefano Mendeni si è prestato a fare da interprete principale. Il corto è in fase di post-produzione. Vedrà la luce a inizio 2023.

Il suo sogno?
Mi piacerebbe tornare sul lago per girare un film che ho scritto. È nel cassetto. Prima ho bisogno di imparare e sperimentare ancora molto. Con il Festival voglio arrivare a comporre un cartellone di 5 giorni intensi con particolare attenzione alle scuole, ai laboratori. Mi piace condividere quello che imparo. Ho conosciuto l'opera di Fabrizio De André soltanto a 17 anni perché nessuno me ne aveva mai parlato: avrei preferito cominciare prima..

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