INTERVISTA

Maurizio Zanella

di Gian Paolo Laffranchi
«L'arte? È la grande bellezza nella natura che ci circonda»
Maurizio Zanella: fondatore e presidente di Ca' del Bosco, milanese d’origine e franciacortino d’adozione
Maurizio Zanella: fondatore e presidente di Ca' del Bosco, milanese d’origine e franciacortino d’adozione
Maurizio Zanella: fondatore e presidente di Ca' del Bosco, milanese d’origine e franciacortino d’adozione
Maurizio Zanella: fondatore e presidente di Ca' del Bosco, milanese d’origine e franciacortino d’adozione

La grande bellezza della cultura svela il suo segreto a Erbusco, fra i vigneti della Franciacorta. È un invito ad amare la vita a piccoli, pazienti sorsi, nella consapevolezza di quanta felicità si possa sprigionare da una creatività libera. È un moto spontaneo, gioioso, ad animare la progettualità di Maurizio Zanella.

Chi mai pretendeva dal fondatore e presidente di Ca’ del Bosco l’istituzione di un Premio dedicato alla scultura?
Fin dalla sua nascita, Ca’ del Bosco ha visto nell’arte le caratteristiche creative che più si avvicinano al vino, che è il suo prodotto. La mia predilezione è sempre andata alla scultura perché come il vino è nelle vigne, così ogni scultura è contenuta nel blocco del materiale da cui nasce. Oggi, dopo oltre 50 anni dalla fondazione di Ca’ del Bosco e a quasi 40 anni dal primo dialogo con Arnaldo Pomodoro per la realizzazione del Cancello Solare, ho deciso di creare un Premio dedicato alla scultura da esterni e riservato agli artisti italiani che abbiano meno di 40 anni.

Il motivo?
Credo fermamente nella capacità d’immaginazione delle nuove generazioni.

La sua passione artistica parte da lontano: dal primo dialogo con Arnaldo Pomodoro, che ha realizzato il famoso Cancello Solare in bronzo all’ingresso?
Anche da prima, certamente, seppur su scala più ridotta. Mi sono sempre concentrato sulla scultura, abbracciando il concetto di tridimensionalità: poter toccare quello che si realizza.

Cos’ama in particolare della scultura?
Rappresenta la pulizia nell’arte contemporanea. Un’opera di sintesi basata sull’essenzialità.

Momenti-chiave della vita: quando sua madre si trasferisce ad Erbusco e impianta il primo vigneto, per esempio?
Sicuramente sì. Uno snodo felice. Avevo 14 anni. Chi avrebbe mai detto che avremmo compiuto questa strada, partendo da una piccola fattoria? Non io né i miei genitori. La mia era una famiglia di montanari milanesi. Acquistammo quasi sessant’anni fa una casa in cui non c’era luce né acqua. E accadde una cosa decisamente inconsueta, ai tempi e anche oggi.

Che cosa?
Fui trasferito qui di forza, esiliato in Franciacorta. Non capita spesso che un ragazzino venga mandato via di casa, spedito a fare il contadino in mezzo al bosco. Strano.

Una prova di fiducia?
Decisamente. A maggior ragione se penso che in base a recenti studi universitari il 68 per cento dei giovani iscritti intervistati vive ancora con mamma.

Istruttivo?
Non lo considero sinceramente un periodo di crescita culturale: mi dedicavo alle motociclette, alle gare di regolarità. Sono patito di enduro, meglio sicuramente quello di fare certe cavolate da ragazzi a Milano, ma il mio percorso non avrebbe preso la direzione che mi ha segnato la vita se non avessi fatto un viaggio in Francia. Probabilmente avrei continuato a dilettarmi con le corse del Motoclub Sebino il sabato e la domenica e stop.

Cos’ha significato l’esperienza francese?
Ha scompaginato tutto. All’inizio ero un ragazzo il cui obiettivo era perdere giorni di scuola. Mi è scattata la molla vedendo come facevano e vendevano il vino i francesi: ho pensato, con lo slancio dei giovani, di poterlo fare meglio in Italia. Incoscienza, entusiasmo.

«Stay hungry, stay foolish».
Esattamente. E poi è stata determinante la figura di Luigi Veronelli, che si è dedicato alla valorizzazione e alla diffusione del patrimonio enogastronomico introducendo alla fine degli anni ‘80 le prime opere d’arte nel paesaggio che circonda la nostra cantina di Erbusco. Senza di lui non ci sarebbe Ca’ del Bosco, che spero possa rafforzare la sua presenza, il suo significato, grazie all’arte. Il nostro non è solo business.

La sua definizione di arte?
È una sublimazione della grande bellezza che sono gli esseri umani e che è la natura che ci circonda. Un concetto ampio, il nostro manifesto interno che finora non avevamo pubblicizzato perché non ci piace parlarci addosso, non siamo un’azienda da comunicati. Il punto principale: preleviamo dalla terra, alla terra dobbiamo restituire.

I Beatles dicevano che l’amore che prendi è l’amore che dai.
Concordo. sì. Architettura, arte, sculture: chi entra a Ca’ del Bosco rimane a bocca aperta. Le opere presenti non fanno parte di una collezione, tutti gli artisti hanno realizzato le loro creazioni site-specific dopo avere visitato la cantina, in modo da porre l’arte in dialogo con la bellezza del territorio circostante. Tutto questo è per chi ci viene a vedere, per chi lavora qui. Siamo contenti, anche un po’ orgogliosi: l’azienda funziona e reinveste parte degli utili non solo in questioni tecniche, ma per rendere il nostro luogo piacevole.  

Ca’ del Bosco «un luogo dove arte e vino si uniscono e si fondono con la scultura e l’armonia del paesaggio», diceva Veronelli. Oggi c’ è un artista in particolare che le piacerebbe ospitare?
Anish Kapoor. Mi piace la sua follia nella semplicità delle sue lastre curve. Disarmante. Non può mettersi in gara per il nostro Premio perché ha superato i quarant’anni... Ma la sua compagna attuale ne ha 21: magari ci prova lei.

L’arte diventerà anche un mezzo per salvaguardare l’individuo in un contesto sempre più disumanizzante, con l’intelligenza artificiale a minacciare la nostra unicità?
È una riflessione che condivido. La vera motivazione per cui ho deciso di istituire questo Premio è proseguire il progetto di scultura contemporanea non più su basi e scelte personali, ma razionalizzandolo in termini di expertise. Ci rivolgiamo a giovani già capaci con l’ambizione di diventare per loro un trampolino di lancio a livello internazionale. Ca’ del Bosco diventerà non dico un museo, ma un parco sempre più gradevole alla vista. Ci crediamo: mi risulta non ci sia un altro Premio in cui i giovani per partecipare non ci rimettono un euro, meritocratico quindi al cento per cento. La scultura non è un quadro, con mille euro non fai nulla, devi investire grandi cifre in bronzi, marmi, fusioni; noi aiutiamo i ragazzi che hanno splendide idee ma senza supporto non potrebbero metterle a terra.

È l’anno della Capitale della Cultura: la percezione all’esterno del nostro territorio sta finalmente cambiando?
Qui sì, nel resto d’Italia no: per tutti Brescia significa ancora armi e tondini. Io non sono bresciano e pensavo che la città fosse brutta, poi mi è bastato camminare in via Musei per capire che invece è una delle più belle d’Italia. Ci vorrà tempo per diffondere questo dato di fatto.

Maurizio Zanella è anche il nome di un vino: l’identificazione in una scelta di vita?
A posteriori sì, ma inizialmente è stato un altro frutto del caso: serviva un nome sull’etichetta che definisse la nostra qualità e Dario Pogliani mi suggerì di seguire la strada intrapresa nella moda da Coveri, Valentino e Dolce & Gabbana: puntare sul nome dell’autore. Ha funzionato, il vino è diventato così famoso che un produttore californiano mi ha chiesto il permesso di riprendere l’idea dell’etichetta con la firma autografa per un nuovo vino che sarebbe dovuto uscire di lì a poco: era l’Opus One, oggi uno dei miti dell’enologia mondiale.

C’ è ancora un sogno nel cassetto da realizzare?
Ce ne sono tantissimi, per la verità. C’ è molto da fare: star dietro alla natura che muta di continuo sta diventando ormai una professione, bisogna aggiornarsi, un territorio diventa davvero tuo quando la gestione dura da almeno 2 generazioni, grossomodo un secolo: tutta l’Italia enologica è a metà percorso. Più sai della natura, meno ti fai sorprendere e più governi i cambiamenti. Chi pensa di essere già arrivato è finito prima di partire.•.

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