l'intervista

Laura Zanoni: «Il ritratto è cogliere l'anima: bisogna voler bene alle persone»

di Gian Paolo Laffranchi
I suoi ritratti campeggiano in numerose case della Valle Trompia. In una mostra al MoCa, fino al 19 marzo, gli scatti ricchi di empatia e prova di indiscutibile sensibilità
Laura Zanoni, in questi giorni è al Moca di Brescia la sua mostra "Attraverso lo sguardo"
Laura Zanoni, in questi giorni è al Moca di Brescia la sua mostra "Attraverso lo sguardo"
Alcuni ritratti di Laura Zanoni

«Quando l'amore per l'arte diventa fotografia» è il suo slogan. Che si può leggere anche in un altro modo: la fotografia è l'arte che si nutre d'amore. Perché ama la vita, abbracciandola in quel preciso istante .Chi ha avuto modo (o l'avrà: ne vale la pena) di imbattersi nelle opere di Laura Zanoni esposte al MoCa («Attraverso lo sguardo», nella sede di via Moretto 78 fino al 19 marzo) si renderà conto di quale empatia animi la sua creatività. I suoi ritratti sono una prova indiscutibile di sensibilità. Non a caso illuminano con la loro umanità innumerevoli case della valle natìa.

Ha trovato la sua strada proprio in Valtrompia, dove ha visto la luce. Com'è cominciato il suo percorso?

Sono di Gardone, dove sono cresciuta e ho studiato, e la fotografia mi accompagna da sempre. Ho la fortuna di essere figlia d'arte.

I suoi genitori hanno iniziato a gestire studi fotografici negli anni '60. L'hanno incoraggiata?

Sì, anche se io non avevo tanta voglia di cimentarmi con sviluppo e stampa. Mia mamma Graziella e mio papà Derino pensavano a un lavoro tradizionale. Io volevo studiare psicologia, fare la maestra.

E poi?

Poi ho trasferito la mia attitudine nella fotografia, dedicandomi al ritratto.

Come si è specializzata?

Ai miei tempi non c'erano accademie come Laba e Santa Giulia, quindi ho sempre girato facendo corsi, cercando master che potessero insegnare quello che mi piaceva.

A quel punto si domandava ancora cosa avrebbe fatto da grande?

Sinceramente, non ho mai avuto troppo tempo di preoccuparmene. Ho assecondato la mia natura, il desiderio molto forte di far star bene le altre persone. I bambini innanzitutto. La vocazione ad insegnare alle persone, a comprenderle. Un istinto che ho messo a frutto nella fotografia di ritratto. Il titolo che ho dato per definire quello che faccio nasce da questo.

Quando diventa fotografia l'amore per l'arte. E per le persone, aggiungerei.

Assolutamente. È ciò che mi spinge a scattare fotografie.

Il modello di riferimento?

Soprattutto i nostri maestri pittori del '500 e del '600. Rembrandt, Caravaggio, Vermeer. Anime in subbuglio.

E tra i fotografi?

Giovanni Gastel.

Originale e potente.

Ci ha lasciato durante la pandemia, ormai due anni fa. Grave perdita.

Ricorda la prima fotografia che ha scattato?

Era un ritratto, io credo di trent'anni fa quando è nato il mio primo figliolo, Marco. Facevo esperimenti e lui è stato il mio piccolo modello, la mia prima foto con le prime luci in studio. Aveva 8, 9 mesi. In bianco e nero.

In trent'anni fedele alla linea della ritrattistica.

Sì, perché a maggior ragione studiando e studiando mi sono resa conto che le foto di ritratti mi hanno preso il cuore.

C'è stato un momento in particolare in cui ha capito che questa era la sua strada, di fatto la sua vita?

È successo in una convention a Orvieto. Incontrai famosissimi fotografi canadesi. A Palazzo del Popolo c'erano sale immense; entrando in una di queste, c'era tutta una serie di ritratti di persone. Un colpo al cuore.

Uno stimolo per?

Studiare innanzitutto l'utilizzo della luce, il flash, il rapporto tra fotografia e pittura. Avevo 33 anni. Da allora ho sempre approfondito il tema. Trovata la mia strada, non l'ho mai lasciata.

A quanti ritratti è arrivata?

Io credo più di 9 mila... Novemila e 200.

Viaggia verso i 10 mila.

Sì. Mi sono resa conto di quanto il numero stesse crescendo grazie a mia figlia Giulia, che per lavoro portava in giro le pizze e mi ha detto «Mamma, in tutte le case della Valtrompia trovo tue foto appese». Si può dire che abbia immortalato decenni di questa zona della provincia, fra volti singoli e ritratti di famiglia. Sono pezzettini di storia che mi emozionano sempre.

Cos'è un ritratto, per lei?

Una foto che vuole cogliere l'anima di chi ritrae. Quando insegno in giro per l'Italia, riporto questa frase di Leonardo da Vinci, il mio compito quotidiano: «Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell'animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile». Quando fotografiamo dobbiamo cogliere l'anima della persona attraverso il suo sguardo, accogliere ciò che ci viene restituito dalla fotografia.

Quando un ritratto un funziona?

Ne esistono di molto validi tecnicamente ma freddi. In quei ritratti manca qualcosa di fondamentale: bisogna voler bene a chi si ha di fronte. È il sentimento che fa la differenza. Attraverso le foto traspare ciò che una persona è. Saperlo raccontare è il massimo che posso sognare.

Altri sogni, intesi come obiettivi?

Mi piacerebbe realizzare una nuova mostra grande, antologica. In uno spazio ampio.

Per forza: con tutte le foto che può esporre...

Sceglierle è difficilissimo. Ho foto che esprimono tanto dei gruppi familiari ritratti, per esempio. Ma spero di poter avere presto l'imbarazzo della scelta: significherebbe che questa grande mostra sta per essere allestita.

Brescia sembra essere il posto giusto per questi progetti, nell'anno da Capitale della Cultura più che mai ma anche prima, fra iniziative del Macof e attività del Museo Nazionale della fotografia.

Trovo che la nostra città sia sempre stata un polo attrattivo da questo punto di vista. Ha mostrato molta attenzione all'arte della fotografia.

Coltiva altre passioni?

L'alpinismo. La montagna è metafora della vita: in vetta non si arriva da soli, serve il gioco di squadra. Amo il jazz, quando posso vado al Blue Note a Milano. E cerco di guardare film che abbiano una buona fotografia: c'è sempre da imparare.

La sua definizione di fotografia?

Cogliere un attimo che non ritorna più e che diventa memoria. .

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